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Teoria del cancello: perché tocchiamo dove sentiamo dolore?

Teoria del cancello: perché tocchiamo dove sentiamo dolore?

Vi siete mai domandati perché spesso tocchiamo la parte dolorante del nostro corpo, quasi a trarne un immediato beneficio? Non è solo un impulso psicologico, ma vi è una ragione scientifico-anatomica legata alla percezione e alla gestione del dolore.

Prima di passare alla spiegazione di questo fenomeno (in maniera del tutto semplificata, ve lo prometto) vorrei aprire una piccola parentesi.

Quando ero piccola, durante le mie sessioni di gioco, capitava di cascare o farmi male. Insomma, niente di nuovo, un classico nei bambini. Ecco, io ero seriamente convinta che il dolore fosse come una sorta di “palloncino” ed avevo una mia personalissima idea al riguardo: più toccavo la parte interessata, più essa si “sgonfiava” dal dolore.

Questa teoria, apparentemente sciocca ed ingenua, ha un reale analogo in letteratura scientifica.

Nel 1962 Patrick Wall e Ronald Melzack, rispettivamente neuroscienziato e psicologo, postularono la “teoria del cancello”, anche detta Gate Control Theory. Durante i loro studi (condotti sui canali ionici controllati da ligandi) si resero conto che lo sfregamento su un’area cutanea dolente determina una diminuzione della percezione del dolore. Questa teoria è stata di fondamentale importanza in quanto ha aperto le porte a numerosi studi sui meccanismi molecolari del dolore che, conseguentemente, hanno portato alla scoperta di terapie non farmacologiche, tutt’ora in auge.

Ma andiamo con ordine.

Cosa è il dolore?

Secondo l’OMS  e la IASP (Associazione internazionale per lo Studio del Dolore) esso è definito come:

«un’esperienza sensoriale ed emotiva spiacevole associata a danno tissutale, in atto o potenziale, o descritta in termini di danno».

Il dolore è di vitale importanza per il nostro organismo. È il campanello d’allarme per eccellenza, volto a mantenere alta la sensazione di pericolo, necessaria per la nostra sopravvivenza. Il dolore, inverosimilmente, ci difende tutti i giorni da eventuali danni. Anche se lo odiamo e non lo sopportiamo, è come se fosse il nostro più caro amico: a volte un po’ noioso, ma fondamentale.

Ed ora arriva la parte complicata, che cercherò di rendervi semplice.

Come si trasmette il dolore?

Dopo uno stimolo (ad esempio, quando battete il vostro mignolino del piede sul famoso e temuto angolo di un mobile) il dolore viene captato a livello periferico da alcuni recettori, chiamati nocicettori. Questi particolari recettori trasmettono questo segnale tramite due “vie”: una più lenta ed una più veloce. Le “vie” appena descritte, corrispondono a dei fasci nervosi che condurranno il segnale doloroso fino al midollo spinale, che in seguito lo “trasporterà” al cervello. Ed è qui che esclamerete “ahia!”, per non dire altro.

Teoria del cancello

Il brevissimo excursus precedente serviva per capire cosa è e dove si trova questo “gate”, che ha la capacità di ridurre il dolore. Si trova nel midollo spinale, vicino ai fasci nervosi che trasmettono il segnale doloroso, che vi ho descritto precedentemente. Accanto a questi fasci nervosi (di tipo C), ve ne sono altri, legati alle sensazioni di solletico, compressione, distensione (tipo AB). Diciamo, più semplicemente, che tutte queste fibre nervose sono connesse tramite questo “cancello”.

Questa zona di connessione, se opportunamente stimolata, è in grado di ridurre l’intensità del dolore che viene percepito. Per fare in modo che ciò avvenga, fibre nocicettive (di tipo C) e fibre meccaniche (di tipo AB) devono comunicare con particolari neuroni che risiedono sempre nel midollo spinale, cioè gli interneuroni, che trasmettono l’informazione al neurone midollare. Gli interneuroni presi in esame rilasciano oppioidi endogeni, sostanze che agiscono da neurotrasmettitori inibitori poiché diminuiscono l’intensità del segnale, e di conseguenza il dolore percepito.

Quindi, in poche parole: sì, massaggiarsi la zona urtata diminuisce il dolore, in quanto la trasmissione simultanea di uno stimolo doloroso e di uno non doloroso attenua la trasmissione dell’informazione dolorifica.

 

Tornando alla piccola parentesi aperta ad inizio articolo, la “teoria del palloncino” da me postulata, mi ha regalato la nomea di “torturatrice”. La mia sorellina, un pinguino imbranato per natura, cascava spesso, complice una scarsa attitudine all’equilibrio. Un giorno le rivelai la mia ipotesi super segreta e da lì, ogni qualvolta si faceva male, le schiacciavo la parte interessata, per mostrarle come liberarsi del dolore.

Non vi rimarrà difficile intuire il perché mi sia stato affibbiato quel dolcissimo nomignolo.

Questo articolo lo dedico a lei, perché la “teoria del palloncino”, non è più solo una storiella divertente della nostra infanzia, ma a quanto pare una realtà terapeutica.

Ed è così che, a 26 anni, è arrivato il giorno del riscatto: la mia personalissima teoria non mi rendeva una “torturatrice” come sono stata definita per anni; semplicemente a 5 anni ero già una biologa, senza saperlo.

 

 

Sarah Rijli

Sarah Rijli

Sarah, ha raggiunto la temuta soglia dei 27 anni ed è un miscuglio di nazionalità diverse. Vive – quasi beatamente – tra i colli fiorentini e senesi, con tre gatti ed un giardino che non usa mai. Traveller per necessità e laureata in Biologia nella vita quotidiana. Sempre pronta a documentarsi scientificamente sulle ultime tendenze, con tanto entusiasmo e una punta di cinismo. Perennemente alla ricerca della felicità e dei prodotti cosmetici perfetti.

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