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Biodiversità – Un «concetto spesso» nella scienza

Biodiversità – Un «concetto spesso» nella scienza

Nel precedente articolo (Concetti etici sottili e concetti etici spessi) è stata offerta una panoramica della discussione sul linguaggio morale, nella fattispecie sul significato di concetto etico spesso. La peculiarità di questi termini (crudele, onesto, codardo, etc.) è che forniscono sia una valutazione che una caratterizzazione empirica dei soggetti di cui vengono predicati. Ora sarà la volta della biodiversità.

Nonostante il dibattito sui termini spessi sia nato in ambito squisitamente morale, in un secondo momento questo si è duplicato, spostandosi anche nel panorama scientifico. Non che sia semplice scovare la duplice natura di concetti che entrano nel cuore dell’indagine scientifica di varie discipline. Tuttavia, frequentemente i termini che ricorrono nelle teorie scientifiche, e che diamo per scontato essere puramente descrittivi, in realtà assumono essi stessi una connotazione valutativa.

In tal senso, molto illuminante è la trattazione che fa Barrotta – nello specifico sul rapporto fra concetti spessi e misurazioni scientifiche – in Scienza e democrazia:

«[…] vi sono problemi pratici per la cui risoluzione abbiamo bisogno di accettare, anche solo in via provvisoria, un punto di vista morale per decidere quali aspetti della realtà devono essere misurati, perché rilevanti per la risoluzione del problema».

L’idea è che le valutazioni maturino all’interno del significato di certi concetti nel momento stesso in cui questi vengono saldati alla loro capacità descrittiva. Non solo, l’atteggiamento valutativo indirizza la forza descrittiva verso l’aspetto della realtà che, in base alla valutazione stessa, è opportuno misurare.

Barrotta mostra, ad esempio, come in biologia il concetto di biodiversità sia descrittivamente insufficiente per fornire una netta linea di intervento su determinate problematiche correlate ad essa.

Il problema è riducibile alla mancanza di una “unità di misura atomica” che possa fornire i diktat cognitivi necessari a un modo di agire univoco, necessari a evitare anche il solo velo di arbitrarietà che adombrerebbe le misurazioni. Sostanzialmente, sfugge alla comprensione immediata quella descrizione della realtà, necessario punto di partenza per stabilire misure di intervento che garantiscano la biodiversità.

Tradizionalmente quando si parla di biologia della conservazione – cioè di quella disciplina volta a indagare la diminuzione della biodiversità e a ricercare soluzioni per la restaurazione e il mantenimento di questa – si fa riferimento a tre fattori che ne determinerebbero l’andamento in termini di ricerca. In quest’ottica, gli ecosistemi, le specie che ne fanno parte e le loro caratteristiche genetiche rappresentano aspetti della realtà sui quali si misura la biodiversità.

Tuttavia, anche concedendo che la specie sia l’unità di misura della biodiversità e che la sua definizione possa essere catturata interamente e univocamente dal significato biologico – presupposti tutt’altro che fissati unanimemente dal consenso fra gli scienziati – ci sono risultati empirici che si può ragionevolmente ritenere cadano all’interno del concetto di «biodiversità», senza che possano essere afferrati dal significato attribuito al concetto.

Vi è un disallineamento tra il proteggere la biodiversità considerando la definizione biologica di specie – individui che possono accoppiarsi e generare una prole fertile – e, ad esempio, rendere conto dei diversi comportamenti di una stessa specie. Scrive Barrotta:

«Sahotra Sarkar […] porta l’esempio, tra i molti, della Danaus Plexippus, una specie di farfalla composta sia da popolazioni con comportamenti migratori (dal Nord America verso il Messico o verso la California) sia da popolazioni stanziali (nei Tropici). Se adottassimo il criterio del numero delle specie per misurare la biodiversità, l’estinzione delle popolazioni migratorie (una minaccia reale) non avrebbe conseguenze per la biodiversità, nonostante scomparirebbero popolazioni con un comportamento di grande interesse naturalistico».

Se riduciamo la biodiversità al fatto che, per mantenerla, è sufficiente salvaguardare il numero di specie esistente, non è possibile abbracciare – né misurare – la complessità della realtà che un concetto come questo dovrebbe suggerire. Anzi, considerando solo lo strato empirico da cui partire per compiere misurazioni e, conseguentemente, proteggere la biodiversità, si rischia di relegare il concetto nella sua gabbia descrittiva creando un problema epistemologicamente più grande di quello che si intendeva risolvere.

Al contrario, se allarghiamo la nostra prospettiva, comprendendo che quella illuminata dagli atteggiamenti valutativi sia la direzione verso la risoluzione di un particolare problema, allora risulta chiara l’esigenza di evadere dalla dimensione puramente fattuale. Continua Barrotta:

«Piuttosto, proposizioni di questo tipo [“la biodiversità sta diminuendo”] sono degli strumenti concettuali, preliminari alla risoluzione di un problema di biologia della conservazione. Solo dopo che abbiamo dichiarato il fine che intendiamo raggiungere (cioè quale aspetto della realtà desideriamo preservare nelle date circostanze, alla luce dei nostri valori) diventa sensato parlare di una misurazione della biodiversità».

L’aspetto della realtà biologica che, in un certo contesto, è necessario salvaguardare è denso delle valutazioni degli scienziati, punto di partenza per la misurazione della biodiversità e per la conseguente strategia da adottare nell’affrontare il problema preso a carico. In tal senso, si mescolano inevitabilmente elementi morali ed elementi fattuali, in quello che sembra un composto effettivamente omogeneo. Conclude dunque Barrotta:

«Quando misuriamo la biodiversità di un sistema ecologico […] non esprimiamo semplicemente un giudizio di valore né una mera descrizione di un fatto. Facciamo, inevitabilmente, l’una e l’altra cosa».

Sostanzialmente, quando si fa riferimento alla biodiversità, è necessario tener presente che l’uso che si fa di tale concetto crea uno spazio epistemologico in cui la sensibilità valutativa si amalgama con la capacità descrittiva, dando forma – e sostanza – all’intersezione di due piani che non sono quindi distinguibili.

Edoardo Wasescha

Edoardo Wasescha

Amava definirsi un nerd prima che diventasse una moda. È appassionato di filosofia e di fisica, di cinema e di serie tv, ama scrivere perché, più che un posto nel mondo per sé, lo cerca per i propri pensieri. Il blog è la sintesi di tutto questo.

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