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Preparativi di viaggio: quell’insana passione per “la lista”

Quarantatreesima intermittenza

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Quarantatreesima intermittenza

Benvenuti, o ben tornati, tra queste pagine.

Quest’oggi vi voglio far leggere una fiaba contenuta in Porci con le ali, un libro uscito nel 1976 e scritto Lidia Ravera e Marco Radice.

Il libro, in brevissimo, racconta le peripezie sessuali di una coppia di adolescenti cresciuti a sesso e politica senza, però, riuscirvi a trovare una sintesi credibile e soddisfacente.

Buona lettura!

 

«C’era una volta un re coi riccetti come te». (Se io fossi uno specchio e tu ti vedessi come mi guardi innamorato.) Dunque questo re viveva in una reggia sopra gli alberi, una specie di enorme castello, però in cielo, ma non pieno cielo, mezzocielo, appunto all’altezza delle ultime fronde degli alberi. Lì aveva praticamente tutto quello che desiderava: un letto col baldacchino, monili, cose preziose, venti schiave d’amore che lo divertivano con le loro danze, dieci schiave di biblioteca che lo interessavano con i loro discorsi intelligenti e gli leggevano dei libri sapientissimi, dieci schiave di affetto che lui ingravidava quando voleva avere dei figli, dieci schiave di poesia che suonavano per lui flauti e arpe e componevano versi meravigliosi. Poi c’erano gli schiavi: dieci erano grossi e muscolosi come giganti e lo allenavano a gareggiare con loro, dieci avevano girato il mondo e gli tramandavano la loro saggezza, dieci erano furbi e lo esercitavano a resistere alla loro sagacia, lo facevano giocare a scacchi dieci campioni e un generale in pensione gli insegnava a vincere. Il re diventava ogni giorno più forte, più abile e più intelligente, le arti più squisite raffinavano la sua sensibilità e i suoi appetiti sessuali erano risvegliati dalla bellezza delle serve, dalla forza dei servi che quando voleva prendeva davanti o dietro come preferiva, e che non lo rifiutavano mai, ma tutte le volte si ingegnavano a resistergli per dargli l’impressione della conquista, perché senza conquista nessuno si diverte, tanto meno un re. Tu penserai senz’altro che il re con i riccetti fosse felice. (Non fare di no con la testa, nelle fiabe non è previsto essere furbi, si deve essere bambini.) Ma il re coi riccetti, invece, languiva. Ogni giorno era un po’ più bello, un po’ più forte, un po’ più bravo e un po’ più triste. Non è che non vedesse mai gente nuova, anzi, ogni tanto cambiava gli schiavi, sempre facendoseli arrivare fra i migliori in tutte le arti e in tutte le discipline, e poi c’erano tutti i bambini che gli nascevano, tutti belli e affidati ciascuno a una nutrice diversa, perché non venissero su uguali e lo facessero divertire. Ma il re soffriva nelle sue ricchezze e nelle sue grazie e non si poteva neppure lamentare, perché nessuno dei suoi schiavi lo poteva consolare. Allora, un bel giorno, il re ordinò che fossero assunte altre dieci donne, che si lamentassero con lui e lo consolassero, per diventare molto bravo anche a essere infelice. Detto fatto, le schiave furono fatte venire: erano belle e pallide, un po’ austere, sapevano piangere e far piangere, smettere di piangere e poi ricominciare. Ma il re non riusciva a sentirsi meno infelice, e imparare l’arte di essere infelice lo faceva sentire così terribilmente triste che neanche tutte le lacrime del mondo sarebbero bastate a farlo veramente piangere di nuovo. (Rocco, ti prego non mi guardare così.) Allora il re decise di farla finita: «Voglio morire» disse al generale che gli insegnava a vincere e per questo era un po’ il coordinatore di tutti i suoi schiavi. Il generale si mise a ridere, perché gli sembrava veramente un’idea strana, comunque, siccome nessuno di loro, neanche lui aveva il potere di disobbedire, si mise subito in moto per cercare al suo signore qualcuno che gli insegnasse a morire nel migliore dei mo-di. Fu indubbiamente il compito più ingrato della sua carriera di generale. Provò a chiamare un eroe, un santo, un drogato e un suicida. Fu un fiasco: l’eroe, dopo aver studiato la situazione, dichiarò che non avendo il re a disposizione una giusta causa per cui lottare, non avrebbe mai potuto morire da eroe. Il santo disse al re che se soffriva per la sua vita, comportarsi da santo implicava continuare a vivere e non morire. Il drogato gli sciorinò davanti senza tanti complimenti la sua mercanzia di oppio e di eroina, ma gli disse anche che tutto questo non garantiva la morte, non a lui che era un re e lo guardò anche con un po’ di disprezzo. Il suicida, appena arrivato in cima alle fronde degli alberi si buttò di sotto e si ammazzò senza aver parlato. A questo punto il re, al quale l’unica morte a cui aveva assistito non sembrava per niente dignitosa, decise di continuare a vivere, e cercò qualcos’altro da imparare. Fu terribile: il re sapeva fare tutto. Di disimparare qualche cosa, neanche a parlarne, la sua bella testa di riccetti non era capace di dimenticare niente, oltretutto un incantesimo maledetto l’aveva reso anche incapace di invecchiare. Da duemila anni aveva vent’anni e non uno solo dei suoi ricci accennava a diventare grigio. Il povero re si disperava. Un bel giorno, uno dei più piccoli fra i suoi bambini andò a trovarlo. Spuntò di sotto al baldacchino senza essere stato chiamato e senza nutrice, era così piccolo che sembrava un topo, ma aveva occhi belli e riccetti come il re (e come te, Rocco, che te li scaruffo ancora un po’). Il re non lo cacciò, anzi lo guardò con interesse, e gli sembrò così bello e così intelligente nel suo silenzio che lo fece sedere sul letto e gli raccontò la sua pena. Miracolo. Il bambino sorrise e gli disse: «Perché non ci liberi e non scendiamo tutti insieme nel mondo?». «Nel mondo?» ripetè il re sbalordito. Gli sembrava un’idea così strana abbandonare il suo regno, abbandonare per stare meglio tutte quelle cose che aveva comprato per stare meglio. Ma il bambino prese a tirarsi un ricciolo e proseguì: «Tu sei triste perché nessuno ti ama». «Come nessuno mi ama, chi te l’ha detto? Dimmelo piccolino che lo faccio impiccare subito!» fece il re che, dopotutto, era pur sempre un re e faceva il suo mestiere. «Non ti arrabbiare: nessuno ti ama perché tu non ami nessuno.» Sul bel viso del re la stizza lasciò il posto allo sconforto. «E vero «ammise. «Ma come faccio? Tutti voi mi ubbidite, siete qui perché vi ho chiamato oppure, come te, siete il frutto dei miei passatempi.» «Per questo ti dico di scendere sulla terra.» «Ma là non avrò niente, non sarò nessuno, non avrò potere…» il re era davvero agitato, perché come tutti gli uomini, teneva più al potere che all’amore, cioè non era convinto che rinunciando a uno forse avrebbe potuto, forse, avere l’altro o almeno sperarci, ma il bambino tanto disse e tanto fece che il re decise di tentare. Prese una grande chiave che pesava molti quintali e tutti uscirono. Lui rimase un po’ e li vide sfilare senza salutarlo, tristi e gentili e neppure in rivolta, li vide colare fuori dalla porta come l’acqua dal bicchiere rovesciato (ti piace, Rocco? Qui è quasi una poesia). Quando fu solo ma proprio solo cercò il bambino: non l’aveva visto uscire, ma non lo trovò. Spaventato stava per perdere il coraggio 73 di andarsene quando una vocina gli parlò uscendogli più o meno dalla pancia. Si guardò: indubbiamente la vocina usciva proprio da lui. «Bravo» diceva, flebile e carina, «adesso esci. Scendi. Non è il caso che prendi il mantello perché sotto è estate. Guarda: puoi andare.» Allora il re che non aveva più il potere, senza niente se ne andò dal castello sopra gli alberi verso la terra ed era così povero e così senza nessun potere che la prima donna che lo vide con i suoi riccetti già in-vecchiati e anche un po’ impolverati, si innamorò di lui. Non era molto bella come le sue schiave d’amore, ma era proprio come lui, anzi, più altera, e sapeva molte cose perché era stata povera molto più a lungo e sulla povertà sapeva tutto. Al re sembrò così brava a camminare per quelle strade t u t t e sporche che a lui facevano una grande impressione, che l’amò subito. Ma non pensò di portarla nel suo palazzo sulle fronde degli alberi, e, insieme a lei, si mise a costruire una casa, molto in basso, sulla terra.

 

Gabriele Bitossi

Gabriele Bitossi

Gabriele nasce nel '96 ed è da sempre appassionato di storie, in ogni loro forma. Studia italianistica all'Università di Pisa e sceneggiatura alla Scuola internazionale di comics a Firenze. Starebbe ore a parlare coi suoi personaggi preferiti... e se lo facesse già?

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