ON AIR


Preparativi di viaggio: quell’insana passione per “la lista”

La frittata è fatta

La frittata è fatta

La frittata è fatta per rimanere in tema, il nostro uovo prossemico non sarà più lo stesso.

Questa buffa dicitura  sta a indicare una zona “protetta” intorno a noi entro alla quale ci sentiamo al sicuro e che non deve essere invasa. Da un mese a questa parte ha cambiato e cambierà ulteriormente dimensioni.
Considerate che secondo la teoria di E.T.Hall Il nostro uovo prossemico è cosi fatto :

In base a questo schema si può verificare che la minima distanza di un metro prescritta per evitare il contagio rientra  in quelli riconosciuti come “rapporti personali”, che si manifestano a una distanza compresa tra 0,45 a 1,2 m.
Ne consegue, che i nostri rapporti personali non saranno più fisicamente tali per un bel po’ di tempo. Soprattutto, abbiamo capito che nel tempo queste distanze si possono modificare.

Volete forse suggerirmi che d’ora in poi avrò una scusa per non  abbracciare e baciare quel parente tanto odioso? Eh be’, effettivamente questa storia del Coronavirus qualche rapporto “di facciata” lo ha sicuramente eliminato, per fortuna aggiungerei.

Percezione dello spazio.

Michele Bracco (autore del libro “Sulla distanza. L’esperienza della vicinanza e della lontananza nelle relazioni umane”) ci dice che esistono essenzialmente due modi di fare esperienza della vicinanza e della lontananza tra i corpi: “Ognuno di noi già sa che una cosa è la distanza geometrica misurabile in linea retta tra due corpi, un’altra è la vicinanza o la lontananza dal punto di vista esistenziale e affettivo”.

Stiamo dunque sperimentando la vicinanza geometrica e la distanza affettiva, situazione molto comune che però ci insegna che la coabitazione spesso non è condivisione e che ciò che veramente sentiamo vicino alla nostra anima non è fisicamente dove vorremmo.

Il bisogno dell’altro è l’inconfessabile segreto di ognuno di noi, il segreto più pericoloso che giace rimosso anche nel cuore del malvagio come uno scrigno prezioso nel fondo tenebroso dell’oceano.

E spesso la distanza “geometrica” non è quella realmente percepita : la paura alza il livello di attenzione e un metro da una fonte di pericolo non sembra abbastanza, un luogo chiuso in cui siamo costretti  a stare sembra essere molto più piccolo di quello che è.
Perfino la percezione del tempo cambia perchè quando si sosta a lungo in una situazione in cui si è costretti, il tempo sembra non passare mai.

Non è la minaccia che suscita paura, ma la paura che crea la minaccia

Le emozioni sono radicate in modo profondo fin dal primo istante di ogni esperienza ambientale e di conseguenza architettonica dell’individuo.
Dunque non si può sottovalutare la componente emotiva suscitata dall’ambiente costruito.
Ma quando l’imprevedibilità irrompe nella storia e scardina il modello, cosa succede?

Ri-organizzare. Ri-adattare.

Consolideremo la distanza sociale come distanza di in-sicurezza, riorganizzando gli spazi con una diminuzione della prossimità.
Il distanziamento sociale condizionerà per molto tempo le nostre vite e quindi gli spazi che torneremo a frequentare.

E’ necessario iniziare a reimmaginare tutti gli spazi, dalla scala cittadina a quella domestica.
Dovremo utilizzare una strategia di “riuso adattivo” : adattare gli spazi ai nuovi utilizzi che nel tempo possono cambiare dimensione.
Spettacoli con meno pubblico, tribunali con meno persone in udienza, classi con minor numero di alunni…

Pensiamo alla nostra cultura “del mangiare” , ai locali pubblici dove vedevamo sempre più spesso nascere tavoli “conviviali”, quei tavoli lunghissimi in cui tutti ci dovremmo costringere a mangiare insieme per “familiarizzare”.
L’apoteosi dell’ipocrisia. Noi sempre proiettati a vivere fuori “tra” gli altri e non “con” gli altri,per mostrarlo sui social e gioirne per noi stessi, soli in mezzo agli altri.
Adesso firremo insieme agli altri distanti, forse per la prima volta dopo tanto tempo avremo voglia di vederci davvero, uno di fronte all’altro e non con uno schermo nel mezzo.
Non tutto il male vien per nuocere, forse.

Non più spazi di sopravvivenza ma spazi per vivere.

Dovremmo aver percepito, non dico imparato” una maggiore consapevolezza di ciò che può essere il mondo senza di noi.
Lo abbiamo visto con la diminuzione vertiginosa dell’inquinamento atmosferico, l’aria che si depura, un elemento tangibile.
Abbiamo visto nuovamente le punte dei grattacieli cinesi stagliarsi nel cielo, perfino le acque dei fossi di Livorno hanno rivelato i loro “tesori”!
Qualcuno ha da subito cercato di lanciare questo messaggio : che dobbiamo prenderci questo tempo per capire che la vita di prima non può continuare perchè fondamentalmente non era più vita. I ritmi, la superficialità, le cattive emozioni e  di conseguenza la cattiva salute fisica e psichica.

Questo si riflette ovviamente sull’abitare, sulla dimensione dei nostri appartamenti sempre più piccoli, impilati l’uno sull’altro, senza giardino, senza a volte neanche un terrazzo. Case senza lo spazio per una dispensa, case che non sono mai a misura di bambino, case dove dobbiamo trovare un angolo in cui lavorare e dove studiare contemporaneamente ai propri familiari per lunghi periodi è stressantissimo. Spazi di sopravvivenza.

Leggi e politica

Sulle scuole (il Ministro le definisce “scuole pollaio”!!) per esempio la politica chiede di investire sulla sicurezza degli immobili ma… ad oggi che cos’è la sicurezza? E’ solo circoscrivibile a quella statica dell’edificio? Ci possiamo accontentare che ai nostri figli non cada in testa un controsoffitto?

E qui dovrà intervenire la politica accompagnata dai “tecnici” , quelli che conoscono e che elaborano con una prospettiva a lunga gittata, coscienti dell’oggi.
Non tecnici come quelli che dagli anni ’60 hanno prodotto una cementificazione di massa e oggetti inguardabili. Neanche quelle attempate archistars che oggi fanno il mea culpa.

Non è facile uscire da una situazione stantia come al nostra, dove si va alla ricerca del metro quadro per ottenere un appartamento in più.
Le leggi ultimamente si sono preoccupate di non farci più costruire occupando nuovo suolo cementificandolo. La città però, che dopo un secolo e mezzo di accuse acritiche era stata rivalutata come luogo primario della nostra evoluzione, sembra non essere più il contenitore adatto.
Solo in Italia ci sono 4 milioni di case desuete ed energivore che dovrebbero essere sostituite.
Che cosa facciamo allora? Non sarà il caso che ci si preoccupi invece di costruire/ricostruire facendolo “bene”?
E bene vuol dire sostenibilmente, senza inquinare il mondo e le nostre vite, con interventi reversibili. La scienza sta correndo in questo senso (vedi il mio  articolo sulla Material Ecology) e se solo qualcuno fosse veramente interessato a dare una svolta superando le mille implicazioni economiche di filiere da riconvertire e imprese da formare, ce la faremmo, che almeno si inizi!

Se c’è una cosa che questa pandemia ci insegna, è che abbiamo bisogno di spazio!

 

 

 

 

 

Gaia Vivaldi

Gaia Vivaldi

Classe ’76, Gaia è uno di quegli architetti a cui piace usare le mani per smontare, costruire, colorare… sperimentando l’effetto della concretezza sull’emotività. In instabile equilibrio sull’orlo del caos, alla perenne ricerca di sintomi di bellezza e benessere ovunque essi si incontrino (o scontrino).

Articoli Correlati

Commenti