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Preparativi di viaggio: quell’insana passione per “la lista”

Una dipendenza (non) ci salverà

Una dipendenza (non) ci salverà

Una dipendenza (non) ci salverà

Altro giro, altra corsa, altra dipendenza. Dopo il mio terzo articolo, mi sono reso conto di aver lasciato troppi fili in sospeso. Non ho raccontato la zona d’ombra della droga e delle conseguenze sociali che questa ha avuto nella storia della nostra civiltà. Il tono delle opere che ho consigliato nel terzo articolo è scanzonato, rilassato, pur trattandosi di tre storie magnifiche e introspettive. Qui, vorrei invertire leggermente il senso di marcia e portarvi tre narrazioni dure da digerire. Tre drammi che facciano riflettere sul ruolo che la droga ha sempre ricoperto nella nostra storia.

Tre storie che riflettono la società, e raccontano come questa abbia sempre deciso di voltarsi dall’altra parte, ogni volta che il problema si è manifestato. Per dare credito a ciò che dico, vi lascio un estratto da Trainspotting:

Quasi tutti i membri di ’HIV e positivi’ erano dei tossici che si drogavano per via endovenosa. Si erano beccati il virus nei baracconi di tiro a segno che erano spuntati un po’ da tutte le parti in città, verso la metà degli anni ottanta. Questo dopo la chiusura del negozio di attrezzature mediche di Bread Street, che aveva bloccato i rifornimenti di aghi e siringhe nuovi. Allora era iniziato l’uso dei siringoni collettivi, e si divideva tutto, da buoni amici.

Queste storie per me sono speciali, come detto già nello scorso articolo. Tutto ciò che è opposto al mio essere mi affascina, mi attira a sé, catturandomi in un vortice dal quale non posso fuggire.

Noi, ragazzi dello zoo di Berlino

Avevo solo dodici anni e non avevo ancora neanche le mie cose.

Questo romanzo è un classico dell’orrore. L’orrore di una società che non è mai pronta a guardare in faccia i demoni che essa stessa produce. La droga è un nemico che la società occidentale non è mai riuscita a sconfiggere. Questa autobiografia scritta da Christiane F. raccoglie in sé tutti gli elementi della discesa infernale, lenta e inesorabile.

Lui prendeva lo scopettone in cucina e me le dava da matti… Tirò via dal vaso la canna di bambù che reggeva il ficus. Quindi mi picchiò sul sedere finché la pelle letteralmente non mi si staccò a pezzi. E quando di notte vedeva disordine, mi tirava fuori dal letto e mi picchiava.

Questo estratto è riferito al padre dell’autrice/protagonista, il “disoccupato col Porsche”. La droga non c’è da subito, ma si presenta nell’assenza delle figure di riferimento, come genitori e parenti. Non è vero, come si sostiene oggi in molti “dibattiti” televisivi che l’uso di sostanze leggere porti inesorabilmente all’eroina o ad altre droghe pesanti. La droga, o meglio, la necessità di drogarsi è presente molto prima, da quando l’assetto vendutoci come standard dalla società rifiuta i suoi figli e li costringe a cercare strade alternative.

Il libro diventa un documento storico utile a comprendere un mondo che si prefigurava opposto al nostro, a partire dal muro che separava due civiltà. Un dramma personale che si universalizza arrivando a raccontare il male, la disperazione di un quartiere dormitorio popolato da 45.000 persone, nel quale gli adolescenti imparano a distruggersi, ma soprattutto ad autodistruggersi.

Chi la vuole, può naturalmente trovarla senza difficoltà.

La semplicità, o meglio, la banalità con cui si tratta l’eroina è sconcertante. La letterarietà è messa da parte, e ogni passaggio è un pugno nello stomaco. L’opera contrappone due mondi: quello della droga, e quello “per bene”, di cui il padre della protagonista è un fiero esponente. Agli occhi di una ragazzina, se il mondo senza droga appare come il mondo di riferimento del padre violento, il rifiuto è più che lecito. Il disgusto verso la figura paterna è legittimo, e la conseguenza è l’approdo al mondo altro, al mondo dell’eroina. Se non altro, perché i rapporti nel mondo della droga vengono percepiti inizialmente come autentici, essenziali e tragicamente vitali. E soprattutto, la violenza viene scelta e non assorbita passivamente.

Spesso riflettevo sul perché noi giovani eravamo così miseri. Non riuscivamo ad avere gioia di niente. Un motorino a sedici anni, una macchina a diciotto, questo era quasi ovvio. E se questo non c’era allora uno era un essere inferiore. Anche per me, nei miei sogni, era stato naturale pensare che un giorno avrei avuto un appartamento e una macchina. Ma ammazzarsi di lavoro per un appartamento, per un nuovo divano, come aveva fatto mia mamma, questo non esisteva. Questi erano stati gli ideali sorpassati dei nostri genitori: vivere per poter tirar su dei soldi.

Credo che questo sia un testo da far leggere nelle scuole per la tragica esperienza/verità che racconta. Può aprire davvero gli occhi su realtà che troppo spesso trascuriamo, e diamo per scontate. Non ci sono fronzoli, non si sono delle scappatoie e voci censorie che tendono a oscurare dettagli. Tutto è nudo e crudo, ed il dramma della discesa nella droga da parte di un’adolescente non è mai stato narrato così bene.

Gli ultimi giorni di Pompeo

Gli ultimi giorni di Pompeo è un fumetto disegnato e scritto da Andrea Pazienza. Esce a puntate su Alter Alter a partire da aprile del 1985 e viene pubblicato in volume dagli Editori del Grifo nel 1987.

È difficile parlare di questo fumetto, come lo è leggerlo, se non si è avvezzi ai fumetti. Anche qui abbiamo una discesa agli inferi. Il racconto assume caratteri autobiografici, ma i confini tra autore e personaggio sono sfumati.

Si racconta, oltre alle vicende personali, la dannazione di una generazione disillusa a causa del fallimento degli ideali in cui credeva. Pazienza riesce a raccontare Bologna, il Dams, la contestazione e l’eroina. Tutto questo con una delicatezza inimmaginabile. A differenza del romanzo di cui abbiamo parlato poco fa, Pompeo qualche sorriso ce lo strappa. L’ironia che viene usata però è quasi sempre fuori contesto, al limite del grottesco.

Non è questo che i media raccontano quando parliamo dell’eroina e lo straniamento che ne risulta non fa altro che sottolineare la visione intima che l’autore aveva di questo mondo.

Il risultato è un delirio. Pazienza disegna dappertutto e con ogni stile: passa dai fogli quadrettati di un quaderno a tavole che sembrano dipinti pittorici. Non si cerca mai la lacrima semplice, tutto è così sussurrato e autentico da non riuscirsi più a staccare dalle pagine.

Ci sono uomini, ci sono artisti che sanno che si può sentire ben oltre il qui e l’ora. Che sanno percepire il ricordo di quando l’universo ancora non esisteva, di quando non eravamo ancora nati, e la realtà del sogno, la musica dell’infinito, i sentimenti dell’essere già morti, la nobiltà dell’ultima disperazione, la tragicità dell’allegria, la pienezza dell’attimo perduto, la futilità del tutto, la grandezza del nulla. C’è tutto questo nelle pagine di Pompeo.

Alla stregua di un antieroe nato dalla pena di Dostoevskij, Pompeo vaga per le strade di una Bologna infernale, diventando una figura cristologica pronta a farsi emblema dei mali di una generazione, non ascoltata, non compresa e troppo spesso dimenticata.

Non essere cattivo

Questo film esce nel 2015. È diretto da Claudio Caligari e vede Luca Marinelli ed Alessandro Borghi ricoprire il ruolo dei protagonisti. La storia è semplicissima: due amici, Cesare e Vittorio, vivono di espedienti che vanno dal piccolo spaccio, alla piccola criminalità organizzata. Cercano di tirare avanti come meglio possono. Vittorio, dopo una serata devastante, sceglie di farla finita con quella vita, e di rigare dritto. Facendo ciò, cerca di tirare a sé anche il migliore amico, considerato come un fratello. La storia muove i primi passi da qui, e tutto ciò che accadrà in seguito sarà devastante, per quanto meraviglioso da fruire.

A Ce’, nun lo guarda’ il mare che ti vengono i pensieri.

Secondo me, siamo davanti al film italiano più bello degli ultimi vent’anni. Si inserisce nel solco dei grandi drammi proletari raccontati da Pasolini, e diventa un sorta prolungamento del filone neorealista sperimentato in Italia nell’immediato dopoguerra. Tutto questo perché sceglie di raccontare una storia dura, fin troppo autentica, ambientata nella borgata.

In una situazione marcatamente italiana come quella della periferia romana, si inserisce un dramma umano che può essere universalizzato, ma è ben saldo in quel particolare contesto culturale e socio/economico.

I rapporti tra i personaggi sono gestiti benissimo e, come nelle altre opere, c’è un richiamo morboso all’infanzia che si realizza nel rapporto tra Cesare e la sorellina.

L’infanzia si prefigura come un mondo idilliaco, finito troppo presto, col quale si vuole recidere ogni legame, ma che si vuole in ogni modo preservare nelle persone che ci sono vicine. E questa “resurrezione”, questa voglia di riscatto portata avanti fin dalla più tenera età, che finisce per sfociare in micro criminalità, si completa nello splendido finale.

L’opera è perfetta nel suo raccontare una storia di reietti, di emarginati. Sono criminali, sì, ma criminali di serie z, le ultime ruote del carro che portano sulle spalle il peso di un mondo che non li riconosce e li mette all’angolo. Roma è la protagonista silenziosa dell’opera, catturata in tutte le sue contraddizioni, e racchiusa in una borgata che è lo specchio della situazione italiana degli anni ’90.

Oh, da vicino me pari un marziano.
Pure te. Siamo due marziani.
Sì, magari! Sarebbe bello.
Però mi sa che abbiamo sbagliato pianeta.

Grazie per avermi seguito in questo delirio. Spero che vi siate divertiti con me.

Un saluto e buona scoperta!

Gabriele

 

Gabriele Bitossi

Gabriele Bitossi

Gabriele nasce nel '96 ed è da sempre appassionato di storie, in ogni loro forma. Studia italianistica all'Università di Pisa e sceneggiatura alla Scuola internazionale di comics a Firenze. Starebbe ore a parlare coi suoi personaggi preferiti... e se lo facesse già?

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