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Preparativi di viaggio: quell’insana passione per “la lista”

Everybody needs a best friend

Everybody needs a best friend

Everybody needs a best friend

Buonasera a tutti. Anche oggi rispondo ad un giovanissimo seguace che mi chiede di spendere qualche parolina su un film che lo ha fatto ridere parecchio, “Ted”, diretto dallo sfrontato Seth MacFarlane nel 2012.

Grazie anche per il presente che corredava la tua letterina, caro e lungimirante lettore, con i cioccolatini mi hai già comprata, diciamo, almeno per metà.

La sceneggiatura è stata scritta dal regista con Alec Sulkin e Wellesley Wild, già suoi colleghi ne “I Griffin”. Durante la cerimonia di premiazione degli Oscar 2013, condotta proprio da MacFarlane, la colonna sonora del film “Everybody needs a best friend” si aggiudica una nomination come “miglior canzone”, intonata dalla splendida voce di Norah Jones. Quest’ultima è anche la protagonista di un divertente siparietto nella pellicola, nei panni di se stessa.

La trama

Boston, 1985. John Bennett è un bambino di otto anni molto solo. Nessuno lo vuole come amico, i bulli del quartiere non si sprecano a picchiarlo e nemmeno le vittime dei suddetti bulli lo vogliono intorno. La mattina di Natale, sotto l’albero c’è Ted, un orsacchiottone di peluche: finalmente ha trovato un amico, a cui manca solo la parola. Così, John esprime il desiderio che parli, e il mattino dopo il pupazzo prende vita, come un amico vero. Ted diventa l’orsetto più famoso d’America.

Boston, ventisette anni dopo. I quindici minuti di fama di Ted sono finiti, ma è ancora il miglior amico dell’ormai trentacinquenne John. Il ragazzo è diventato un perditempo che non riesce ad arrivare in orario al lavoro e sta sempre sul divano con Ted, fumando e guardando la tv. La sua ragazza, Lori, è però stufa di aspettare che John diventi un adulto e gli dà un ultimatum: o lei o l’orso.

John decide di accontentare la fidanzata, e trova all’amico un lavoro in un supermercato e un nuovo appartamento dove andare a vivere. Ted conosce anche una collega, Tami-Lynn, con la quale poi si fidanza. Ma l’amicizia tra i due non è di quelle che si possono rompere.

The Seth MacFarlane Show

Seth MacFarlane è il più pagato autore televisivo di sempre. Giovanissimo, crea “I Griffin” (“Family Guy”), una delle serie animate di maggior successo degli ultimi vent’anni (a cui si è poi aggiunto lo spin-off “The Cleveland Show” e l’altra serie “American Dad”). Su questo suo gioiellino, ha continuato a esercitare un controllo pressoché totale, mantenendo non soltanto il ruolo di produttore esecutivo, consulente creativo e capo degli sceneggiatori, ma anche quello di doppiatore di tre protagonisti maschili (Peter Griffin, il figlio Chris e il cane parlante Brian) e di diversi altri personaggi secondari.

Forte di tanta celebrità, MacFarlane decide così di esorbitare dal suo orticello: con un budget di oltre cinquanta milioni di dollari, dirige questo suo primo lungometraggio, che ne ha incassati quasi mezzo miliardo, nonostante in patria abbia ricevuto la classificazione R – vietato ai minori di diciassette anni non accompagnati – notevolissimo handicap commerciale negli Stati Uniti (in Italia, invece, è stato vietato ai minori di quattordici).

Quando nel 1989 la sitcom animata de “I Simpson” approdò nelle tv USA, disegnando una nuova parabola sull’ “American way of life”, la società moderna si è riconosciuta in questo microcosmo abitato da cialtroni, inetti, irrispettosi e viziati. Ma, a differenza dei Simpson (che resta l’insuperato modello di Matt Groening), i Griffin radicalizzano l’aspetto demenziale, dissacrano qualsiasi concetto di intreccio e investono tutto sull’irriverenza, sul turpiloquio e sulla sfida aperta ai più vari tabù contemporanei: battute su ebrei, gay e disabili, sfrontatezza sessuale, feroci parodie religiose e dintorni.

L’orsetto del cuore

I bambini sognano un amico del cuore, e inventano un amico immaginario. L’idea di fondo che anima la storia di questa opera prima è buona. L’infanzia, l’adolescenza, momenti in cui un amico diventa indispensabile, un’ancora di salvezza che aiuta nella fasi difficili della crescita. E MacFarlane va oltre. Lascia che il pestifero Ted segua il suo amico nella quotidianità, nelle decisioni di lavoro, che si intrometta nella relazione sentimentale con la bella Lori, che, in poche parole, gli renda la vita un vero e proprio circo.

Dopo il breve fiabesco inizio, è divertente vedere un orsacchiotto di peluche, simbolo di tenerezze che richiamano il focolare domestico, esprimersi (e non solo) senza peli sulla lingua a proposito di sesso, droghe, razza, religione e… rumori corporei. Per ogni trenta/quarantenne nostalgico e immaturo, cresciuto a cartoni animati, eroi dei fumetti, serie tv e la marcia imperiale di Star Wars come suoneria dell’iPhone, Ted è speciale: l’incarnazione parlante del miglior amico che un ragazzino emarginato possa desiderare, e l’alter ego perfetto per un adulto che non ha nessuna voglia di staccarsi da un immaginario giocoso e spensierato.

Nel cast che incorona l’orsetto, nei panni di John troviamo Mark Wahlberg, al quale Hollywood dovrebbe smettere di dare ruoli action per concentrarsi sul suo talento comico, e Mila Kunis, voce di Meg Griffin per anni, nelle grazie di Lori. A spiccare è la surreale performance compulsivo-schizoide di Giovanni Ribisi (già al fianco di Wahlberg in “Contraband”), come quel Donny che tenta di rapire Ted per il figlio crudele e viziato.

Si sorride riflettendo sulle fragilità di una generazione compiaciuta e assuefatta anche alle critiche, meglio in lingua originale ovviamente, visto che la verve di quel chiacchierone di Ted si scatena nei brillanti (e volgari) giochi di parole, che hanno la voce di MacFarlane. Ascoltiamo invece Mino Caprio nella versione italiana (doppiatore anche di Peter Griffin), e non Nanni Baldini, voce nostrana del feroce Stewie che in parecchi speravano di sentire.

Il politicamente scorretto cede però troppo presto il passo a una bizzarra favola di formazione retta dalla fidanzata stanca del deludente comportamento infantile del Peter Pan. E dispiace vedere uno tra i capofila più sprezzanti della comicità televisiva contemporanea adagiarsi in un contesto dove i valori dell’amicizia e dell’amore precipitano verso la beneamata moralità. Anche il lieto fine, dove la moralista si arrende al ménage a trois, anziché approfittare dell’evento per una riflessione ludica sulla flessibilità dei modelli tradizionali, preferisce il compromesso che non solleva riflessioni.

Ho avuto la sensazione che non si sia voluto osare più di tanto, e che MacFarlane sia stato tenuto al guinzaglio per evitare che strafacesse. Manca un altro tipo di cattiveria, quella che riesce magnificamente a tirare fuori nella demenzialità e nel cattivo gusto delle sue creazioni animate. Un’operazione che, qui, è riuscita solo a metà.

So bad, it’s good

“Ted” è altresì un tributo agli anni Ottanta. Ci piace pensare che se E.T. non avesse “telefonato casa”, ma avesse deciso di approfondire la conoscenza della birra, lui ed Elliott non sarebbero cresciuti in modo molto diverso da Ted e John. Ci piace anche pensare che questo film sia un grido che suona più o meno come: “non è davvero necessario crescere del tutto. Restate un po’ bambini dentro”. E che non sia solo un rantolo nostalgico, per rimanere in tema “amarcord eighties”. 

Complice anche la presenza di Sam Jones, il Flash Gordon dell’omonima pellicola che, definita “So bad, it’s good” (espressione usata dagli americani per intendere i film tanto brutti quanto divertenti), rappresenta anche il simbolo del legame tra John e Ted, non è un certo citazionismo cinefilo a essere assente all’interno dello script.

Del resto, la morale che ne viene fuori non sembra affatto distaccarsi dal modo in cui venivano lanciati i messaggi allo spettatore nelle produzioni edulcorate degli anni Ottanta. Aspetto, quest’ultimo, che ne svela il significato, probabilmente finalizzato a ribadire che, se lo si vuole davvero, è tranquillamente possibile crescere nella giusta maniera lasciando sempre uno spazio per il proprio lato adolescenziale. E per i migliori amici, ovviamente.

Simona Van de Kamp

Simona Van de Kamp

Creatura mitologica, per metà prova a fare l'avvocato, per metà prova a fare la scrittrice. Diretta e pungente, la odierete tutta, al 100%. Il blog e la radio sono due sogni che si avverano. Ha messo la testa a posto, ma non ricorda dove.

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