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Preparativi di viaggio: quell’insana passione per “la lista”

Al di là di una lastra di vetro

Al di là di una lastra di vetro

Non fa freddo al di qua del vetro. L’aria è la stessa che respirerei dall’altra parte. Cambiano i rumori. Qua non ce ne sono. Non arrivano voci. Eppure lo so che non sono sola. Di qua è pieno di gente come me, ferma nello stesso silenzio, con la stessa stanchezza addosso, lo stesso fiato di chi non dorme, mangia poco, si affida a una sigaretta per calmare le mani che tremano, la stizza che si agita in pancia. Ogni tanto tiro un pugno al vetro. La vibrazione è minima e prende solo me; scivola, cresce attraverso il corpo, si ferma ai piedi e va a morire sul linoleum chiazzato dai passi e dagli anni.

Arriva un dottore e quasi non mi vede. Ohi, magari sono io che penso male. S me lo dice sempre che penso male. Dice «Ti farai venire un’ulcera» e io vorrei dirle che l’ulcera l’avevo evitata fino a tre giorni fa, ma ora che il dottore rallenta, si volta di poco, allarga le braccia e riprende la sua corsa verso chi non ha vetri di fronte, la sento tirare. Sento i lembi della lesione che si tendono.
Non ne ha colpa, lo so. Non è per lui che l’ulcera tira. Succede per i miei vent’anni con S nella stessa casa, per le vacanze insieme, per la menopausa che arriverà per entrambe, per quei ninnoli di cristallo pregiato sulla mensola del camino, che lei ama e io detesto, ma per vent’anni ho sopportato.

Tiro un altro pugno al vetro quando vedo arrivare una dottoressa. È una delle più giovani, ha l’aria sveglia. Le faccio un cenno e lei sulle prime accelera, poi  rallenta, si ferma di fronte a me. Ci separa il vetro.
Scuote la testa «Non posso fare niente, signora.» sussurra e io vorrei dirle che è buffo, che mi sembra di averla sentita, che il vetro si sia crepato per un millesimo di secondo. Crick.
Vorrei chiederle per chi non può fare niente, per il dolore di S che in questo momento la tiene lontana dalla realtà, o per il mio, conseguenza di questa realtà che mi allontana.
Invece rispondo solo: «La prego.»
Mi sento patetica. Eppure ero io quella forte, tra noi due. Ero quella cinica che non aveva fiducia nel mondo e invece ora recita, affida la sua parte più fragile a una ragazzetta.
Perché non può arrabbiarsi. Perché la ragazzetta non ha colpe.
«La prego.» ripeto.
«Non ha ancora ripreso conoscenza.» mormora «Aspetti qui, appena riesco, le dico qualcosa.»
Allarga le braccia pure lei. Sembra un balletto, una coreografia. Tra la realtà e il posto che sta al di qua del vetro si comunica a gesti. Tu muovi le labbra e loro allargano le braccia.

Sfilo di tasca un portacipria. Mi guardo nello specchietto e vedo gli occhi di un’aliena. Prendo un fazzoletto e tampono a caso. Il trucco è scomparso da ore.
S non ama vedermi truccata, dice «T’ho conosciuta all’università. La mattina ti svegliavi tardi e arrivavi senza neanche fare colazione, figurati se trovavi il tempo di truccarti. Mi ricordo di quella volta che la pancia ti brontolava e l’hanno sentito tutti. Il docente di filologia classica disse ‘ma insomma!’ e tu ridevi, non te ne fregava niente e io ti allungai un pacchetto di cracker. Ti ho amata così N, senza trucco e con le briciole dei cracker sulle labbra.»
Non l’ha mai detto. Sono io che cerco di ricostruire il passato, perché il presente mi tiene a distanza.
Sono quasi le otto, tra poco si cena.
Una donna si avvicina e mi tocca la mano. Il vetro si rompe per un secondo. Crash.
«Deve andare, signora.»
Annuisco «Devo andare, lo so.»
Ma non so dove.
Lo so che cercano di venirmi incontro, la sento l’empatia. È un velo fermo sugli occhi di chi guarda, ma è fermo anche al di là del vetro.
La donna allontana la mano, sospira, mi fa un cenno rapido col capo. La seguo a testa bassa come se mi vergognassi, come se stessi rubando qualcosa a qualcuno che non può reagire. Cavolo, che rabbia. La donna tira su una tenda a rullo. Guardo di là. S dorme. È caduta per strada, tre giorni fa. Io non c’ero e non ci sono neanche adesso. Ci sarò domani, quando aprirà gli occhi e chiuderà la sua piccola borsa di effetti personali, quella che ho preparato io e ha svuotato suo fratello, sistemando ogni cosa nell’armadietto della stanza. Ci sarò perché S si sveglierà e allora non avremo lastre di vetro, solo le pareti di casa nostra.
L’infermiera mi lascia sola, appoggio le mani su un vetro vero.

Il primo giorno mi hanno chiesto «È una parente?»
Ho detto di no, che dovevo fare?
Il secondo giorno me lo hanno chiesto di nuovo. Ho tirato fuori il cellulare. S ha un profilo su Instagram. L’ho mostrato a un infermiere perché ci sono tante foto di noi due. Ho detto: «Qui eravamo in Grecia due estati fa, invece questa che tengo in braccio è la figlia di L, il fratello della signora S. Mi chiama zia.» ho continuato a scorrere le immagini col pollice che si muoveva a scatti per la stizza «Queste siamo noi il giorno della laurea.»
Avevamo l’alloro in capo e ci baciavamo sotto l’arco d’ingresso. Era quindici anni fa.
«Che prova mi chiede?»
Invece non chiedeva nulla. Ero io che mettevo le mani avanti, perché dire che da vent’anni dormiamo nello stesso letto non basta. Lo so bene. La mia appendicite, la sua gamba ingessata, quella volta che sono svenuta in ufficio. Lo sappiamo bene entrambe.
Qualcuno mi tocca una spalla, mi volto. C’è L, il fratello di S.
Dice «Andiamo N, dai. Ti accompagno a casa.» dice «Torneremo domani.»
Va bene, torneremo domani e il vetro sarà ancora lì. Quello che vedo solo io e quello oltre il quale la gente si ammala. L guida senza parlare. La città è dietro alle finestre, nelle gallerie della stazione. Guardo le luci sui palazzi e mi domando che rumore fa una pianta che cresce, la terra che si sbriciola quando il tronco si allunga. Forse è lo stesso rumore che fa il mondo quando cambia, lo stesso di un vetro che va in pezzi.
Crash.

S e N non esistono e se esistono non è detto che si chiamino così. Quello che conta è che, in qualche piano dell’esistere, S e N si sono scelte per la vita ma la vita non è la sola a scegliere per loro, perché tra i diritti che non hanno c’è quello dell’assistenza al proprio compagno o compagna in caso di ricovero in ospedale.

Francesca Gaudenzi

Francesca Gaudenzi

Ho sempre preferito la parola scritta a qualsiasi altra forma di comunicazione. Se le altre bimbe deliziavano gli zii con canzoncine e racconti dettagliati di vita quotidiana, io piantavo il muso e cercavo le parole. Studiavo le reazioni della gente, ne osservavo i gesti, le espressioni del volto, associavo il tutto a un contesto e cercavo di dargli una forma, così, cercando cercando, le parole sono arrivate. Da sei anni curo una rubrica sulla rivista Strumenti Musicali in cui mi occupo di donne e musica, ho un blog personale e da quest’anno inizio la mia avventura con i ragazzi di WiP Radio.

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