Ho visto il penultimo film di Pupi Avati, Il signor diavolo , un pomeriggio d’estate al cinema con i miei. In sala cinque o sei persone, l’unico scopo della mia presenza era forse tirare uno strattone verso il basso nel grafico dell’età media. “Deve fare davvero paura”, aveva detto mia madre con trepidazione prima di entrare. Spoiler alert: non faceva paura, tutt’al più sorridere, e non è mai un bene in questi casi.
E questo forse è del perché in sala c’erano solo cinque o sei persone.
Lei mi parla ancora
Ad ogni modo è di recente approdato su Sky l’ultimo film di Pupi Avati, Lei mi parla ancora , introdotto nuovamente dalla trepidazione di mia madre , “questo sì che deve fare paura”, e spoiler alert, neanche questo fa paura.
Il titolo in effetti strizza consapevolmente l’occhio all’horror più standard, d’altra parte tutto il cinema di Avati ammicca a questo mondo qui suggerendoci che il truce e il grottesco sono insite in certi ambienti della natura umana, insomma che le vere storie di paura sono storie vere.
Va detto che il film rispetta questa linea perché la materia trattata sono effettivamente i morti che parlano, nel senso che riflette sulla morte e sul suo essere in continuo dialogo con la vita, ma no, non è un film horror, è un film d’amore.
Di un amore eterno quello fra i coniugi Sgarbi (sì, i genitori di quello Sgarbi che a dispetto di ciò che ci si aspetterebbe da chi ha dato vita ad un personaggio così poco digeribile, dovevano essere persone non solo normali, ma anche belle persone) che sopravvive alla morte di uno dei due, Rina, anzi, la Rina.
I morti
La scelta stessa del cast resuscita i morti, ovverosia riporta sullo schermo volti noti di un cinema morto, e che non si legga questa considerazione con l’erronea accezione di un rimpianto amaro, il cinema contemporaneo di fatto dialoga con quello passato per lo più felicemente.
Da Alessndro Haber che parla affacciandosi dai ricordi (“io so che lui torna dall’orto dei morti solo in occasioni speciali”) a Serena Grandi che ormai abbandonati i panni della bellezza formosa che fu, raccoglie i capelli e veste quelli di un’anonima signora veneta, per approdare ai coniugi Sgarbi interpretati nella loro versione “contemporanea” da Stefania Sandrelli ed un incredibile (nel senso che non lo si riterrebbe credibile in un ruolo drammatico, e poi lo si trova invece straordinario) Renato Pozzetto.
I fantasmi
Ispirato al memoir di Giuseppe Sgarbi, redatto recentemente con l’aiuto di un ghost writer romano, interpretato Fabrizio Gifuni, sempre all’altezza del duello con l’imprevedibile Pozzetto.
Il movente della storia è dunque il solito topos letterario, ed anche cinematografico, dello scrittore (leggasi: scrittore in crisi) che per forza di cose incrocia la propria strada con quella di un anziano strambo e tendenzialmente poco collaborativo al quale finisce per affezionarsi. Ne quid nimis, ci si rifà a modelli letterari come il “Tristano muore” di Tabucchi, oppure saltando a piè pari la lista dei Grandissimi rintracciare un’analogia filmica nell’iper commuovente Philomena (Stephen Frears, 2013) nel quale un giornalista senza ingaggio viene convinto a dare voce alla storia della tenera e indecifrabile Philomena, riportando alla luce (letteralmente) gli scheletri nell’armadio della Chiesa Cattolica in Irlanda.
Gli immortali
Dicevamo che Lei mi parla ancora è un film d’amore più che di paura, ma in un certo senso è anche un film sulla vertigine che si prova poco prima di innamorarsi, quando si comincia ad intuire che la persona che si ha davanti è quella che si intende o si vorrebbe tenere con sé per sempre. Questa vertigine Giuseppe (interpretato nei flashback da Lino Musella) la avverte incontrando la Rina (qui Isabella Ragonese) sulla soglia della casa che fu dell’Ariosto. Il loro amore si sposta poi su un autobus che arranca dalla città alla provincia veneta, attraversa il Po verso una casa che sarà tutta loro, la casa-cimelio che poi compare alle spalle di Sgarbi senior nella celebre intervista-confronto de Le Iene con il figlio, tesa forse a svilire il secondo ma soprattutto a far riflettere lo spettatore sull’arbitrarietà della genetica e sull’effettiva efficacia del sistema educativo famigliare.
Ad ogni modo, il viaggio insieme che parte dalla soglia della casa dell’Ariosto si conclude con le spoglie di Pavese, anima settembrina nel cui mistero della morte si svela invece quello dell’immortalità.
E’ Sgarbi senior stesso a ricordare ai suoi fantasmi alcune fra le (numerosissime) parole dello scrittore torinese quando tenta di spiegare a Leucò che
‹‹ l’uomo non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia ››
Ciò che rende immortali i due anonimi farmacisti tuttavia, è per chi scrive piuttosto la dimensione presente nella quale hanno deciso di essere prima di tutto amanti, confermandosi come tali ogni giorno.
Ciò che nega al loro amore la morte è il loro essere stati fin dal principio fuori dal tempo e dalle convenzioni sociali (durante la scena del matrimonio i due scambiano i fatidici “sì” bisbigliandosi un segreto, molto prima che il prete suggelli il loro amore con la fatidica domanda che a quel punto diventa una mera formalità, pura cortesia da parte loro concedersi alla prassi di rispondere), perché autosufficienti, bastanti a sè stessi, o, per citare Calvino, reciprocamente necessari.
Niente che sia ancora necessario alla sopravvivenza di chi vive muore davvero, così l’amore, ma anche la letteratura e l’arte e il buon cinema.
E infatti Ariosto, Bergman, il Guercino, Pavese, l’amore semplice di un’anonima coppia di farmacisti si muove nell’immortalità degli altri fino a raggiungere la propria, o piuttosto a questo punto partendo dalla propria.
D’altra parte, occorre ricordare che la formula del matrimonio che citiamo tutti erroneamente come “finchè morte non ci separi” è mutata di recente nel più chiaro “tutti i giorni della mia vita”.
Dunque, un invito dalla sottoscritta a fare molta attenzione prima di comprare palloncini a forma di cuore ed altre sciccherie per proposte di matrimonio pacchiane solo perché avete visto la instagram story di un tizio che l’ha fatto prima di voi: “tutti i giorni della mia vita” è moltissimo tempo.
Un post scriptum di cose tralasciate
Punto primo: e Sgarbi?
Sgarbi c’è nel film, innominato e non interpretato da sé stesso ma doverosamente intuibile, d’altra parte, non tutte le numerosissime coppie di anonimi farmacisti che pure si sono amati per sempre hanno diritto alla voce letteraria di cui gode chi mette al mondo figli di successo in ambito culturale.
Il secondo punto è un sorriso di affetto o forse auto compassione: durante una ripresa aerea di Roma si intravede il Quirinale illuminato di verde, bianco e rosso. E’ uno dei segni della pandemia che cominciano ad affacciarsi nelle produzioni cinematografiche, la traccia tangibile di ciò che è stato e che demarca il presente tutt’ora.
La nostra quotidianità che irrompe nella finizione e per un attimo ci dà la sensazione sgradevole di percepirci di nuovo noi, sui nostri divani, davanti ad una televisione e non in un cinema.
Ci ricorda chi siamo, e per un breve seppur significativo lasso di tempo diventa difficile tornare a concentrarsi, d’altra parte, nessuna storia ci interessa mai più della nostra.