Banksy al Mudec di Milano. Per la prima volta in un museo pubblico italiano
Ad una settimana dall’apertura, ho avuto il piacere di visitare la prima mostra pubblica italiana di Banksy. A visual protest. The Art of Banksy, il titolo. Il Mudec – Museo delle Culture di Milano, il luogo. A catturarci, in prima, è appunto la location: si tratta di un edificio appartenente all’ex polo industriale dell’Ansaldo, ora riqualificato e destinato ad attività artistico-culturali. L’anima originaria senza dubbio trasuda dalle pareti di vetro opaco di tutto l’edificio, la cui struttura inconfondibile si nutre di architettura industriale. Il percorso espositivo inizia al primo piano, che è organizzato come una piazza, una agorà da dove si snodano diverse diramazioni, che conducono a spazi differenti. Una di queste vie ci conduce alla mostra di Paul Klee (fino al 3 marzo 2019), un’altra al Novecento italiano, un’altra proprio da Banksy, almeno fino al 14 aprile.
La mostra
Questa non è un’audioguida, ammoniscono le cuffiette nelle orecchie dei visitatori che scelgono un narratore virtuale – in realtà più di uno – come condottiero del viaggio artistico. Via adesso da qui! continua l’avvertimento. Eh sì, perché la mostra non è autorizzata da Banksy, che ufficialmente fa sua una posizione da free rider, anti-sistema, che si esplicita in un netto rifiuto del diritto d’autore, della mercificazione dell’arte e della sua collocazione nei palazzi, dalla fruizione elitaria. Le contraddizioni però non mancano nella produzione dell’artista, le cui opere sono spesso scrostate dai muri e vendute a cifre milionarie dalle maggiori case d’asta. Vedi, ad esempio, la recente vendita della Ragazza con palloncino, battuta da Sotheby’s per oltre un milione di sterline, che però si è autodistrutta subito dopo. Banksy vive per sua natura sospeso tra i contrasti. Ciò si vede anche nel semplice fatto che, seppur l’artista sia contrario al copyright, le fotografie alle opere della mostra fatte con macchina fotografica (col cellulare vanno bene!), anche senza flash, non sono ammesse. Questo mi sembra rappresentativo della confusione che provoca lo street artist. L’esposizione si dà quindi come mission la riflessione su quale può e potrà essere la collocazione di Banksy in un contesto storico-artistico.
Il percorso espositivo
La mostra, che raccoglie circa 80 lavori tra dipinti, copertine di dischi, fotografie, video e diversi memorabilia, si apre inquadrando gli writers in un movimento più ampio – il situazionismo (protesta visiva caratterizzata dalla fusione di parole immagini) – che ha segnato soprattutto gli anni a cavallo del ’68. Poi, subito, si passa ai lavori di Banksy. Già dalle prime opere si capiscono le peculiarità dell’artista: il détournement, ad esempio, e cioè prendere un’opera già esistente e stravolgerne la forma e il contenuto. Oppure l’inserimento nei suoi lavori di una nota incongrua e spiazzante – lo strappo nel cielo di carta di pirandelliana memoria -, che cattura l’attenzione dello spettatore e gli fa vedere il mondo da un’altra angolatura. Vedi Churchill icona punk, o delle anziane signore della migliore borghesia britannica che giocano a bocce con delle bombe. Ancora, la giustapposizione ironica (mettere insieme in modo sinestetico elementi totalmente estranei fra loro).
In questo modo, l’intento di Banksy è criticare la guerra, il consumismo, la religione, l’educazione nevrotica e oppressiva occidentale.
I graffiti, nel ghost artist di Bristol, circospetto come un topo di fogna, sono sinonimo di meraviglia. Ma non è forse la meraviglia che ci rende, non solo esseri pensanti, ma esseri vitali?