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Preparativi di viaggio: quell’insana passione per “la lista”

Supersize

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Il secondo articolo della nuova stagione culturale WiP della rubrica USA (e getta) – Racconti di un’italiana in America, a cura di Marina Viola.

Come un automa (con l’apostofo perché sono femmina? Devo chiedere a qualcuno), ogni mattina faccio gli stessi gesti: caffé, fetta di pane nel tostapane, succo d’arancia. Saluto figli e marito, che escono prontamente quando il caffé sta salendo, computer, dove apro Repubblica prima di tutto, e poi il New York Times. Del New York Times mi piace soprattutto la parte delle Opinions, che sarebbe poi la sezione del giornale in cui alcuni bravi giornalisti (cambiano ogni giorno) commentano notizie non necessariamente quotidiane, ma riflettono su alcuni aspetti della loro (e nostra) vita.

Stamattina Frank Bruni si sofferma su un aspetto della cultura americana che colpisce molto i miei amici italiani quando vengono a trovarmi, e devo ammettere, anche me, malgrado i mille anni che abito qui: la grandezza delle dimensioni di ogni cosa. Inizia raccontandoci di una volta che era a far la spesa da Costco, che è un ipermercato all’ingrosso, dove l’olio d’oliva si vende a cinque litri a botta, la carta igienica a trentasei rotoli, le aspirine a duecento a confezione. L’interno di Costco, che è una catena nazionale e dunque si trova dappertutto, è generalmente enorme, perché deve contenere tutto questo bendiddìo, come sono enormi i carrelli, per lo stesso motivo. E anche le macchine parcheggiate fuori da questo dinosauro di ipermercato sono enormi. Poi Bruni nota (come spesso noto io, quando vado da Costco) che anche le persone che vanno a fare la spesa sono enormi, e anche le loro famiglie devono essere enormi, altrimenti perché servono ottanta litri di aceto balsamico? sei chili di arachidi? una confezione da dodici di mozzarelle madeinitaly?

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Si sofferma (come spesso mi soffermo io) sull’ossessione che l’America ha per le porzioni, per la quantità di mole, per l’enormità che ci circonda. I ristoranti, per esempio, hanno sempre porzioni esagerate, e la parola chiave di molti di loro è supersize: la quantità di cibo è sinonimo di buon affare, e si lascia da parte il fatto che non serva così tanto cibo tutto in una volta, e si lascia anche da parte il discorso qualità, salute. Quantità enormi di cibo significa enormi frigoriferi, che significa enormi cucine, che significa enormi case. Insomma, mi sono spiegata, immagino.

Ci informa, nel suo articolo Hard Truths About Our Soft Bodies, che l’obesità americana, nota in tutto il pianeta, viene affrontata dai mass media come un problema che si può combattere con esercizio fisico giornaliero, giusto bilanciamento tra proteine e carboidrati, addirittura (ultimamente) con l’inniezione di batteri di una persona magra nell’intestino di una persona grassa. Nessuno, dice l’autore, si pone il problema dell’enormità delle dosi.

Poi, nella parte che più mi ha lusingato dell’articolo, racconta dei suoi due anni passati a Roma come corrispondente: dice che gli italiani sono notevolmente più magri degli americani (mi sono sentita subito sollevata!) non perché fanno più esercizio, o mangiano molto più sano, o perché fumano di più. Semplicemente perché mangiano meno, perché le porzioni sono più piccole, perché i ristoranti non ti convincono a mangiare da loro perché le porzioni sono più grandi, o perché i supermercati non ti vogliono far andare da loro proponendo sacchetti di patatine economy size (leggi sacchetti grandi come quelli della pattumiera pieni di papatine unte e salate). Qui in America, al consumatore è stato insegnato che il volume equivale al valore: più grandi sono le cose più buono è l’affare.

Rifletto su quello che scrive e concludo che ha perfettamente ragione, e che sono sicuramente tanti i fattori che portano gli americani a fare di ogni cosa un supersize: lo spazio, per esempio qui è infinitamente più esteso che in Italia, per cui le macchine sono più grandi anche per quello, e le distanze da casa al supermercato anche, e dunque si va meno spesso a fare la spesa e si tende a comprare di più. Soprattutto, però, l’America è ossessionata dal cibo in modo maniacale.

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Io invece, alla faccia di Costco, dei macchinoni e dei buffet che propongono all-you-can-eat per dieci dollari che mi circondano, ho perso un altro chilo.

In fondo, sono italiana.

Marina Viola

Marina Viola

Milanese al cento per cento, nata nella metà del secolo scorso. Nel lontano millenovecentoqualcosa scappa dalla città meneghina dopo aver capito che il tipo di Sesto san Giovanni (MI) non l’avrebbe mai amata, e si trasferisce nel Massachusetts (Stati Uniti) per il famoso anno all’estero tra superiori e università. Fa la ragazza alla pari, ma viene cacciata dalla famiglia perché tutti i suoi amici erano maschi e dava un brutto esempio ai bimbi. Transit. Si trasferisce in una casa con alcuni studenti americani, che le insegnano tutte le parolacce in inglese. Durante il suddetto anno incontra un americano che era appena ritornato da un anno a Siena, dove aveva imparato il senese e aveva suonato alle feste dell’Unità (un americano!!) la chitarra elettrica con il suo gruppo, Paolo and the Businessmen. Si amano che neanche Giulietta e Romeo, ma Marina deve tornare in Italia, dove si iscrive a Lettere a Pavia. Dura poco: qualche anno dopo si trasferisce in America con l’americano (che si chiama Dan), e si iscrive a una piccola università per una minilaurea in Arti Grafiche, di cui non farà mai niente. La coppia si trasferisce a Brooklyn (NY), dove fa tre figli. Nel frattempo, la Viola si iscrive a Sociologia presso l’università statale (CUNY), dove si laurea a pieni voti. Nel frattempo scrive, scrive scrive, ma nessuno legge niente. Scrive addirittura la storia di lei e di suo padre, un famoso giornalista/battutista/ecc… morto anni prima, che approda per vie traverse su una scrivania della Feltrinelli di Milano, che coraggiosamente decide di pubblicarla. Il libro esce in Aprile: sul contratto si dice che più copie vende più guadagna, per cui si raccomanda, occhi vigili sulle vetrine delle librerie, che ha tre figli a carico. Nel frattempo prova a scrivere un blog, dove racconta della sua vita diversa da quella degli altri, che riscuote un certo successo quando, seduta al tavolo della sua cucina di Boston (nel frattempo si era trasferita da New York a Boston, ma quella è un’altra storia) decide di pubblicare una polemica vecchia tra suo padre e un suo vecchio amico. Da allora il blog è seguito non solo dai parenti, ma anche da qualche amico virtuale e non. Da qualche tempo collabora per il sito smemo.it, dove le piace scrivere delle stranezze dell’America, un po’ come fa e farà in questa sede, grazie alla sua amicizia (virtuale, per ora) del diretùr, come si dice nella pianura padana. Il suo blog, per chi interessa, è: http://pensierieparola.blogspot.com

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