Quarantaduesima intermittenza
Benvenuti, o ben tornati, tra queste pagine.
Quest’oggi ripropongo il racconto che diede il via a questo spazio, leggermente rivisto e corretto. Questo perché, spero tra non molto, il racconto vedrà nuova linfa in altri media. Non anticipo ancora nulla, ma non mancherò di avvisare anche qui a tempo debito.
Buona lettura!
L’estate era ormai alle porte e quella sera approfittai della stasi di questo piccolo conglomerato urbano per uscire, fare due passi e togliermi da quell’aria asfittica che, dall’adolescenza a questa parte, albergava in casa mia. La stagione balneare al suo massimo splendore era ancora, per fortuna, lontana e il lungomare vivibile senza dover fare per forza a spallate con la spavalderia dei turisti.
In più, in quel mio pellegrinaggio, o in quel mio progetto ancora virtuale di viaggio serale, era racchiusa la mia sete di evasione. Evasione che si sarebbe configurata compiendo un gesto inaspettato per me e per chi mi conosceva un minimo. Non solo perché sarebbe risultato alieno rispetto alla mia persona, ma anche perché avrebbe danneggiato le mie vie respiratorie, già abbastanza compromesse dall’asma che mi minaccia fin dalla tenera età.
Quella sera, non avevo dubbi, avrei iniziato a fumare. Non so come, non so perché, ma quella sera mi prese un’irrefrenabile voglia di sigarette. Non avevo mai fumato prima, né per fare il furbetto a tredici anni, né per assumere assurde pose intellettuali, o pseudo tali, coi colleghi universitari.
Uscii velocemente, facendo attenzione a non scordarmi nulla. Tessera sanitaria? Presa.
Spiccioli per la macchinetta? Presi.
Davanti al distributore la scelta non fu difficile: ogni pacchetto aveva un suo fascino, ma per provare, optai per le più economiche. Nel distributore ci lasciai persino cinquanta centesimi da tanto che ero assorto in questa, per me, inedita avventura. Ritirai la refurtiva da quel comodo sportellino tipico di questi spaccini automatici e me ne scappai verso il porto. La città era deserta, tutto sembrava attendere, o almeno assecondare, il mio primo tiro.
Per la strada ebbi modo di ripensare a tutto ciò che era successo in quel bizzarro inverno e come metabolizzarlo. La risposta, chiaramente, non arrivò e questo mio interrogarmi a tappeto non aiutò per niente, anzi.
Però, avevo una nuova certezza: ero arrivato al mare. Chi vive sulla costa, ormai assuefatto a questa distesa azzurra, non riesce più a coglierne il valore salvifico. La bellezza si è omologata, per questi osservatori stanchi e disillusi, al resto del passaggio, tanto da divenire ordinaria e scontata.
D’altronde, apri la finestra e il mare rimane sempre dov’è, no?
Noi nati sulla costa ci portiamo sempre un po’ di salsedine nella nostra quotidianità.
Il mio atteggiarmi a fumatore incallito era tanto ridicolo quanto fallimentare. Dimenticai di comprare, o di fregare al malcapitato di turno, il migliore amico dei fumatori, Pietro per i più scafati: l’accendino. Non male come inizio, davvero. Iniziai a perlustrare tutte le viuzze che danno sul mare, in cerca di un tabacchi, o anche solo di un piccolo localino che facesse asporto. Avrei trovato qualcuno a cui scroccare l’agognata fiamma, tanto oggi fumano tutti.
Arrivai nei pressi di un bizzarro edificio, leggermente diroccato e inquietante, ma illuminato a giorno, che non avevo mai visto in vita mia. Classica architettura di quei casermoni tipici delle zone industriali, ma a due passi dal mare. Passavo di lì almeno una volta ogni due giorni, com’era possibile che questo mostro, totalmente fuori contesto, mi fosse sfuggito?
L’avrei notato di sicuro. Mi sentivo a disagio: un estraneo in casa mia. Poche storie, avevo voglia di fumare (ma voglia di cosa, poi?) e niente e nessuno mi avrebbe ostacolato dal raggiungere il mio obiettivo. La serata si sarebbe dovuta concludere come l’avevo pianificata. Stop!
Mi feci coraggio (coraggio?) e mi avvicinai, furtivo e silenzioso a questo strano casermone. Sbirciando all’interno, l’arredamento mi richiamò alla mente subito un classico bar di provincia, uno di quei circoli ARCI che si vedono ai lati delle provinciali. Anche la clientela era esattamente la stessa. Non ci ho mai messo piede, ma sicuramente non ero andato lontano.
Sulla soglia sostavano degli strani tizi che facevano gruppetto tra loro. Non mi ispiravano una sega, ma provai comunque ad attaccare bottone, forte della mia spavalderia da neo-fumatore. Mi dissero di essere senza accendino. Dall’aria che avevano, pensai che le sigarette ormai fossero un ricordo dei loro sei anni.
Sentendomi invincibile nei miei pregiudizi da falso borghese acculturato, non mi detti per vinto ed entrai, pronto a sfidare la fauna che avrei incontrato una volta varcata la soglia del locale. Ciò che vidi fu incredibile e anche oggi stento a trovare le parole giuste per descriverlo. Nella sua estrema semplicità, rimasi folgorato.
Immaginate di vedere una concessionaria, completamente vuota: sulla destra un piccolo bancone al quale poter ordinare da bere; nella zona centrale un semicerchio formato da un numero indefinibile di sedie occupate e, al centro di questo, in piedi, si trovava un uomo che stava dicendo cose, gesticolando molto. Mi avvicinai un pochino, fino a poter ascoltare le sue parole. Stava recitando una poesia e gli altri erano in silenzio che lo fissavano adoranti, quasi in religiosa contemplazione.
Passato nemmeno un minuto, l’uomo si mise a sedere e si alzò una donna. Questa si mise esattamente nello stesso punto punto in cui si trovava il suo collega e iniziò anche lei a decantare dei versi. Rimasi in piedi ancora per 3 o 4 poesie, non ricordo, poi decisi di mettermi a sedere anch’io, nell’unica sedia rimasta libera. La clientela, se così possono esser definiti i partecipanti a questa situazione, rappresentava, o meglio rappresenta, un tipo di umanità con la quale non ho mai avuto a che fare.
Per descriverla in poche parole, immaginate i vecchietti avvinazzati della Città vecchia cantata da de André, miscelati con Mark Renton, Sick Boy e gli altri protagonisti di Trainspotting. Forse è eccessiva come immagine, forse no, ma l’importante è farsi capire. Ero seduto tra tossici, arzilli ottantenni e signore sulla settantina che ti asfaltano con le loro riflessioni sull’amore nelle nuove generazioni mentre aspetti il treno delle 7.37 per andare in facoltà. Ero immerso in un’umanità vera, pulsante e autentica.
Le poesie che venivano raccontate a turno erano meravigliose. Di letteratura so davvero poco, giusto quelle tre o quattro nozioni accademiche che ti forniscono all’università, ma mai mi era capitato di perdermi nelle parole di altre persone a me contigue e, soprattutto, vive.
Ero coinvolto, forse troppo.
Quella che mi colpì maggiormente veniva decantata da un ragazzo che con quella marmaglia eterogenea aveva ben poco in comune. Indossava un maglione nero, dei jeans scoloriti e delle air force nere leggermente sgangherate. Non spiccava per originalità, ma per essere fuori contesto in quel contesto già fuori di per sé. Ricordo a stendo le parole precise, ma ricordo alcuni elementi che ritornavano ossessivamente nei suoi versi.
I granelli di sabbia, i capelli alghe, un tramonto invadente e il silenzio del mare…
Non so se questi elementi abbiano un senso, riportati così alla rinfusa, ma per me continuano ad averlo. Mi emoziono quando li faccio affiorare in quel marasma indefinito e indefinibile che è la nostra memoria. Sono diventate quelle parole che sussurro al buio, durante la notte, per farmi coraggio e prendere sonno, la mia coperta di Linus.
Dopo quel ragazzo e la sua struggente poesia, calò il silenzio. La persona alla mia sinistra iniziò a singhiozzare incessantemente, quella alla mi destra piangeva in silenzio. Al centro di queste due esperienze, di queste due vite, stavo io, rapito e totalmente incapace di esprimere qualsiasi emozione. Ero come anestetizzato, privato dei sensi e della parola.
Dopo l’intervento di quel poeta, nessuno si alzò per recitare i suoi versi: forse per paura del confronto, o più semplicemente per lasciar riecheggiare il più a lungo possibile l’eco delle sue parole nell’atmosfera che ci cullava. Far sì che quei versi potessero vivere e risuonare nelle nostre esperienze individuali. Lasciarli respirare, lasciarli volare.
Le persone intorno me cominciarono ad andarsene, ordinatamente e senza fare rumore. Io fui tra gli ultimi. Volevo ubriacarmi ancora, volevo arrivare al midollo di quell’esperienza così semplice, ma così intensa. Volevo assaporare ogni istante.
Una volta fuori, erano tutti scomparsi. Poco male, pensai, quell’esperienza mi aveva completamente scombussolato e dovevo riprendermi. Mi sedetti sul muretto esterno dell’edificio e iniziai a vagare con lo sguardo e coi pensieri…
L’armonia del mare, il tramonto invadente, i capelli alghe e i granelli di sabbia
Cominciai a gesticolare, come se quella misteriosa combinazione di parole potesse conferirmi l’accesso a un altro mondo, a una dimensione più consapevole, all’interno della quale vivere con intensità, coinvolgimento e passione potesse ancora avere un senso. Nel mentre elaboravo la mia nuova esperienza, ai miei piedi trovai un accendino verde, lasciato lì, tutto solo. Mi infilai la sigaretta in bocca, mi alzai in piedi e tornai verso il mio appartamento. Fatti pochi passi, accesi la sigaretta e aspirai. Tra il catrame, la nicotina e i colpi di tosse con la gola in fiamme, decisi che la sera successiva sarei tornato in quel posto.
Decisi che da quella sera avrei iniziato a fumare.
Da quella notte iniziai a scrivere poesie.