Non so se è il rumore familiare delle rotaie e degli scambi, se è questo grande finestrino attraverso cui scorrono paesaggi e immagini, o se il piacere è solo nell’idea stessa di andare, resta il fatto che il treno è il mio mezzo di trasporto. Amo viaggiare in treno.
Il treno ha la sua storia: nasce lento, fumoso, elegante e rivoluzionario, ha percorso milioni di chilometri attraversando secoli e continenti, ha ispirato canzoni e libri, fino a diventare elettrico, velocissimo e, in alcuni casi, superato.
In treno puoi muoverti, non sei bloccato su un seggiolino. Puoi osservare la vita che si muove all’interno, in quel micromondo dove ognuno ha un motivo per essere lì, chissà qual è. E guardare fuori, mentre attraversa campagne o città, è nutrimento per l’immaginazione: chi vivrà in quella casa, dove starà andando quel tipo fermo al passaggio a livello? Il treno mi aiuta a immaginare le vite degli altri.
E subìsco il fascino delle rotaie. Forse perché ho passato l’adolescenza in un quartiere tagliato in due dalla ferrovia, dove la stazione era il riparo dalla pioggia e le zone isolate lungo i binari i luoghi delle cazzate e delle confidenze, in quel momento della vita in cui esplodono il senso di libertà, di incoscienza e onnipotenza che i trent’anni si porteranno via. L’idea che il mondo è solo tuo e che la vita è uno splendido quadro di cui tu sei l’artista.
Credo che fosse questo che provavamo guardando le rotaie che si perdevano nell’orizzonte della zona industriale. L’idea che sicuramente laggiù, dove finiscono (ma finiscono davvero?) c’è qualcuno con lo sguardo rivolto verso di noi che sta pensando la stessa cosa.