A nove anni il piccolo Ennio suonava la tromba al conservatorio. Voleva fare medicina, ma il padre, a sua volta trombista (a tal proposito: Treccani ci segnala un vuoto lessicale su questo fronte, Morricone usa più volte il termine “trombista“, e questo è quello che useremo anche noi) per lavoro, necessitava di un socio o forse, come spesso capita a certi genitori, solo di un erede intellettuale, una continuazione di sé stesso.
E’ certamente una narrazione atipica rispetto a quelle che siamo abituati a sentire, la parabola rovesciata della più classica di queste che vede figli affondare nelle sabbie mobili delle facoltà tecnico-scientifiche per poi rendersi conto (o forse lo sapevano già) che era la musica la loro vera strada.
Storie che conosciamo, che ci piacciono perché ci restituiscono quel briciolo di fiducia nella potenza dell’istinto che invece il più delle volte ci ha ingannati.
Ebbene, a settantanove anni, nel 2007, un ben più anziano Ennio, smilzo e commosso, riceve il suo primo Oscar alla carriera come compositore, e chissà se avrà pensato almeno per un secondo, a quel delirio di voler fare il medico, all’amarezza che prova ciascun ragazzino che deve mettere da parte gli strumenti del suo sogno per imparare a maneggiare quelli di qualcun altro.
Chissà come sarebbe andata se-
Voi ve lo chiedete mai?
Ennio, the maestro
Forse lui no, e forse non ha nemmeno mai provato quest’amarezza di cui parlavo, o forse sì ma solo per un momento, o forse sì, per tutta la vita ma lasciandolo sempre fra parentesi.
Non si può sapere con certezza, perché quello ripreso da Tornatore, regista del documentario omonimo, Ennio (2021), sembra essere un uomo mite, o mitigato dagli anni nei suoi furori, nelle sue caparbietà, persino nelle convenzioni.
Morricone davanti alla telecamera si racconta con quella sincerità spietata che si acquisisce forse con l’andare degli anni, quando non ha più senso nascondere alcunché.
Gesticola, canticchia, mima il muoversi delle dita sui tasti del pianoforte, si diverte però poi si arresta in un ricordo fragile, un nodo ancora difficile da sciogliere e allora smette di parlare, si commuove.
Ha davanti a sé – o meglio, dietro- tutta la storia della sua carriera da ripercorrere, e che fatica raccontare tutto quello che si è stati quando si è stati così tanto, dal trombista nei cabaret, al compositore per la musica popolare e poi per il piccolo cinema, dunque per quello un po’ più grande grazie al sodalizio amicale e professionale con Sergio Leone e poi per approssimativo name dropping, Bertolucci, Monicelli, Wertmuller, Malick, lo stesso Tornatore, l’Oscar alla carriera, quello per la colonna sonora di The Hateful Eight di Quentin Tarantino.
E tutto questo col dubbio perenne di non aver fatto quello che doveva fare –comporre musica seria per i teatri veri, non quelli di posa- di aver deluso le aspettative degli altri, da suo padre ai docenti del conservatorio.
L’ossessione dei pionieri di essere rimasti sospesi nell’indefinibile.
Piccola storia del cinema
Di Ennio Tornatore sceglie di fare almeno a livello formale un documentario: c’è il montaggio documentaristico, l’intervistatore invisibile per il protagonista e per il corollario di comprimari che lo ricordano (c’è Bertolucci, ci sono i Taviani e ci sono anche Gino Paoli, Bruce Springsteen e Gianni Morandi) ci sono i frammenti delle comparse in tv, le foto in bianco e nero dei genitori.
Eppure è tutto un trucco, un mezzo per veicolare ancora una volta quella grande storia del cinema che riempiva gli occhi del piccolo Salvatore sprofondato nelle poltrone del Nuovo Cinema Paradiso, è di nuovo quella storia lì, quella che Tornatore ha amato, col focus posto questa volta sul tratto percorso dentro di questa da Morricone, o per meglio dire tracciato da questo.
E dunque ecco in carrellata il west di Leone, il primo Verdone, quel pianista sull’oceano che diventa leggenda, Pasolini in bianco e nero, la vera missione di Joffè che fu convincere Ennio a rimanere nel cinema, e su tutti, per la sottoscritta, C’Era Una Volta In America.
Farewell Deborah
Chi ha visto C’Era Una Volta In America (e chi non l’ha fatto recuperi, anche “a puntate”, anche distribuendolo su più serate, d’altra parte, sono quattro ore di film) non può non associare in maniera diretta le immagini iconiche del film a quel fischio prima scanzonato poi improvvisamente truce, il tema musicale che accompagna la figura di Cockeye, un ragazzo che col suo flauto di Pan si fa folletto e sembra fare di New York una fiaba grottesca da fratelli Grimmes (e dopotutto, si parla di “c’era una volta”).
Ma soprattutto non può dimenticare il volto di Deborah dietro il finestrino di un vagone di un treno alla stazione, Noodles (Robert De Niro) avvolto nel vapore, fermo sui binari che assiste al suo partire, consapevole che non ci sarà un ritorno.
E’ tutta qui, la grande storia del cinema, in un volto dietro il finestrino e nella colonna sonora in sottofondo che non accompagna l’addio di Deborah ma contribuisce a narrarlo.
E’ chiaro, a questo punto, che Morricone non ha solo composto per il cinema, Morricone ha composto il cinema.
Non è immaginabile la stessa scena senza la componente musicale perché questa è la scena, è parte integrante nella narrazione, quella musica è la voce senza parole di ogni nostra nostalgia, di tutti quelli che abbiamo visto partire, di ogni addio ed ogni attesa, e noi non ne conoscevamo il suono finchè qualcuno non ha saputo metterlo in note.
E’ questa la passione, è questo il genio.
E se questo sembra scagionare tutti noi che siamo nati senza la benedizione del genio, e in qualche modo può giustificare ogni nostra pigrizia esistenziale, va ricordato che ciò che più traspare di quest’uomo minuto e a suo modo fragile è invece la solidità che solo l’impegno sa dare. Ennio è (stato) oltre che un genio, un infaticabile lavoratore, uno studioso, un atleta impegnato ad abbattere ogni suo limite.
Non un semplice vaso comunicante di sentimenti –dal corpo allo strumento- ma un minatore della musica, dimostrando che di fatto, aldilà dei padri e dei maestri, l’unica strada che un uomo deve percorrere è quella che va in profondità, dentro di sé.
Baci senza genio,
Francesca