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Preparativi di viaggio: quell’insana passione per “la lista”

EP.21 Come ci cambia la notte

EP.21 Come ci cambia la notte

Una nozione generica di fotografia è che il bianco e nero rende tutto più interessante.
E’ un filtro, una chiave di lettura (spesso applicato su contenuti deboli), avevi la foto mediocre di un condominio e, dopo aver dato il bianco e nero  ti ritrovi una critica sociale all’edilizia urbana. Et voilà, la macchina che crea la poesia.
Noi fotografi (leggasi: noi che possediamo una reflex qualunque e dopo aver imparato le tre basi del manuale ci riteniamo tali) ci dividiamo equamente fra quelli per i quali il bianco e nero si aggiunge in post produzione e quelli per i quali è un concetto aprioristico, lo si inserisce subito perché è così che abbiamo pensato la foto, in bianco e nero.
C’è una differenza sostanziale, dunque, fra il bianco e nero come necessità (artistica o cronologica, riferendomi ai tempi ante technicolor) e il bianco e nero come surplus, dichiarazione artistica o semplice vezzo.

 

Malcolm e Marie

Alla seconda categoria credo che appartenga Malcolm e Marie (Sam Levinson, 2020), prodotto “made in quarantena” targato Netflix. Per quelli che non lo avessero ancora visto ma si stiano chiedendo dove lo hanno sentito nominare, sì, è quel film bianco e nero con Zendaya addobbata a charme ed eleganza.
Ma partiamo dalla genesi: come dicevo, Malcolm e Marie è uno dei pochissimi prodotti cinematografici della quarantena. Il making of si propone come abbastanza interessante: un’intera troupe, dal cast (esiguo) agli operatori rinchiusa in una villa californiana, a girare il logorio amoroso di una giovane coppia dello star system.

Non c’è niente di più, d’altro canto, in quarantena si poteva fare e si è fatto molto di meno.

La premessa va tenuta perennemente in considerazione nell’assistere all’intrecciarsi di due monologhi spesso incoerenti di pretese inconsistenti e accuse reciproche che allo spettatore sfuggono, o vengono offerte in maniera gratuita e manifesta, prosaicamente, in un copione didascalico che non lascia spazio alla poesia.
La storia fra Malcolm e Marie (lui, regista emergente alla vigilia del primo riconoscimento importante, lei attrice senza ingaggio ex-tossicodipendente) così come noi la vediamo non ci offre alcuna informazione sul suo stesso passato, in una notte la vediamo snocciolarsi in un discontinuo avvicinarsi, è un cielo nuvoloso di Marzo, con un sole che da da ben sperare e rapidi annuvolamenti.

 

La notte

Fu detto di Monica Vitti esattamente questo, che riflettesse tutta la poetica di Antonioni nel suo volto che attraversava guizzi di passione e rapidamente di rabbuiava, un cielo di Marzo, anche lei.
Spiegarvi chi siano questi due personaggi per chi non li conoscesse, Monica Vitti e Michelangelo Antonioni mi esporrebbe pericolosamente al rischio di fraintendere i miei dodici crediti in storia del cinema alla triennale con una licenza poetica, e soprattutto a quello di rimettere in discussione il risultato dell’esame.
Allora mi limiterò a dire che la prima è un’attrice (vagamente rassomigliante a Alice Pagani, la moretta di Baby, ci avete fatto caso?) e il secondo un regista di silenzi, luoghi che sanno raccontare e persone che non sanno comunicare.
La Notte Antonioni lo gira nel 1961, poco dopo l’alba dell’Italia paese industrializzato, è naturalmente un film in bianco e nero, nel senso che questa volta è totalmente naturale che lo sia.
Come Malcolm e Marie anche i coniugi Pontano (Giovanni e Lidia, Marcello Mastroianni e Jeanne Moreau) sono una coppia in crisi, lui, scrittore di successo ma in piena crisi, lei, donna taciturna e acuta con il rifiuto per lo studio e almeno in apparenza per la vita.
Attraversano la notte di una giornata di premiazioni per lui che è proceduta faticosamente fra la camera d’ospedale che ospita un amico morente, ostinati allontanamenti e arrendevoli ricongiungimenti.

 

Dietro un grande uomo

Marie e Lidia Pontano subiscono il successo dei mariti, la prima con una componente non trascurabile di invidia, l’altra con preoccupazione, vedendo nella crisi artistica del marito anche una più profondamente personale, che inficia sulla loro stessa relazione.
Entrambe ad ogni modo custodiscono il segreto dei coniugi, ciò che sono lontani dai poster e le copertine patinate, entrambe lo tengono per sé, con un’eleganza squisitamente femminile e non senza una certa dose di sacrificio.

 

All’incontro con l’industriale che dà la festa che durerà tutta la notte nel film di Antonioni egli chiede a Giovanni che avrebbe fatto della sua vita se non fosse stato uno scrittore, è Lidia  ad anticiparlo rispondendo prontamente “si sarebbe ucciso”, ipotesi che Giovanni allontana rapidamente e con un certo astio.

E’ un uomo che non è più, quello che si sarebbe suicidato per amore delle lettere, l’uomo di cui Lidia è stata innamorata è morto.

Al tradimento di lui (con Monica Vitti, per l’appunto) non segue quello di lei, se non a livello prettamente platonico, nella scena felice di un viaggio in macchina fra lei ed un anonimo spasimante che la rende improvvisamente sorridente e loquace. Allo spettatore, ostinatamente escluso dal segreto di questa festicciola privata nella festa della notte, non resta che il rumore della pioggia a censurare le parole dei due amanti mancati.

 

Parlare molto non significa comunicare

Mi riaggancio a quello che è la stella polare del mio personale firmamento filmico, Eternal Sunshine Of The Spotless Mind (seriamente: se dovessimo indire un gioco alcolico in cui qualcuno beve ogni volta che cito questo film sareste tutti ubriachi nel giro di un quarto d’ora) nel prendere in prestito la citazione di cui sopra “Parlare molto non significa comunicare”
Il logorio vicendevole di Malcolm e Marie passa da miliardi di parole, urlate, digrignate, incessanti, con un buon ritmo attoriale ma tutto sommato pretestuose, riflettendo in tutto e per tutto l’ossessione moderna per la comunicazione, laddove invece il lento disfarsi della coppia dei coniugi Pantano attraversa un lungo silenzio e frasi non portate a termine, sbocconcellate nei brevi avvicinamenti che la nottata di festa gli concede.
L’abitudine concede loro di abitare i silenzi (a tal proposito, Malcolm e Marie da quanto stanno insieme? Si sono mai parlati prima di quella notte?) ma è anche vero che giunti alla fine di una lunga relazione non c’è più niente da dirsi che valga la pena dire, non si dedicano all’accanimento terapeutico che mettiamo tristemente in scena noi contemporanei per salvare gli organi buoni in un corpo comunque morente.

 

L’alba

All’alba il piccolo psicodramma in salsa kammerspiel di Malcolm e Marie sembra ormai essersi sciolto in una resa all’amore folle e accanito che li lega, li vediamo allontanarsi sulla collina fuori dalla finestra della villa e noi invece rimaniamo nella loro camera dove si è consumata la tragedia, in compagnia del letto disfatto e di una sola domanda: come fa Zendaya ad essere così bella, anche col trucco disciolto e i capelli in disordine.

 

scena finale di Malcolm e Marie

L’alba di Antonioni porta invece l’atto finale della vicenda, sposta sul finale il fulcro della situazione, la resa dei conti, facendo del film una gigantesca anticamera della verità. Anche i nostri due si trovano sull’erba, anche lei ha il volto stanco, lui indossa i suoi rimorsi come porta la giacca da festa, incapaci di tornare indietro e troppo stanchi per andare avanti.

Scena finale La Notte

 

Prima che me lo diciate

Stavo per caso cercando di paragonare un tutto sommato modesto prodotto Netflix alla Grande Storia Del Cinema Italiano?
Considerando che sarebbe stato l’equivalente di una partita fra il Crotone e il Barcellona no, non ci stavo neanche pensando.
Nelle mie speranze c’era piuttosto l’incoraggiamento ad approfittare di questa situazione di usura dei prodotti delle piattaforme di streaming per andare a scavare più a fondo, per non confondere il “già visto” con il “visto per la prima volta”, e non aver paura dei famigerati film senza parole (o con un dialogo ogni diciotto minuti) tenendo sempre chiaro che parlare molto non significa comunicare, e che spesso è nel silenzio che si svela ogni verità.

Parlare è sempre superfluo.
Comunicare è l’unica cosa che conta.

 

Un bacio in silenzio, Francesca.

Francesca Cullurà

È laureata in Lettere all’Università di Firenze ma se la cava discretamente anche nella sacra arte del darsi l’eyeliner. I suoi interessi sono la letteratura, la Formula1 e il vecchio cinema italiano. È convinta di saper guidare meglio di molti uomini.

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