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EP.16: Voglio (ri)vederti danzare

EP.16: Voglio (ri)vederti danzare

Fuori era primavera è il titolo iper romantico di un docu-film ad opera di Gabriele Salvatores (e reperibile su RaiPlay) che mostra il mosaico della vita in Italia ai tempi del lockdown, frammento per frammento.
Sbirciando la copertina (puramente online) della pellicola si nota in basso la data di uscita programmata per l’avvento nelle sale: 26 Ottobre 2020.
Ebbene, questo film in una sala vera e propria non c’è mai entrato, causa seconda ondata e rinnovata chiusura, ne è rimasto fuori ed è approdato nelle nostre case qualche sera fa tramite la televisione, su Rai3, rimanendo ironicamente fedele alla sua natura di “prodotto del lockdown”.

L’autore timido

Il terzo dato ricavabile dalla copertina riguarda l’autorato: “un film collettivo di Gabriele Salvatores”, laddove “Gabriele Salvatores” è scritto con le stesse dimensioni della frase che lo precede, ma in grassetto. E’ un autorato timido, che punta ad enfatizzare la dimensione di collettività del prodotto, come collettiva è la sofferenza che abbiamo esperito durante la prima ondata, come collettivo è stato lo sforzo di tutelare il nostro paese. Eppure Salvatores è con ogni evidenza l’uomo dietro la cinepresa, l’uomo del montaggio, l’uomo che azzecca la colonna sonora per ogni momento, l’affabulatore pieno di trucchi.

In un’intervista rilasciata al programma di Gramellini pochi minuti prima la visione del film sullo stesso canale, Salvatores ha dichiarato di essere stato anch’egli positivo al covid-19 e dunque di aver esperito, sebbene per poco, il dramma dell’isolamento. A tal proposito aggiungeva che se avesse dovuto partecipare anche lui con un frammento della sua esperienza al suo esperimento filmico collettivo, avrebbe ritratto proprio il suo isolamento, di tipo fisico esternamente, e di tipo umano interiormente.

Una telecamera, ha spiegato Salvatores, ha sempre due obiettivi: uno esterno, verso ciò che succede sulla scena, ed uno interno, puntato sul cuore dell’uomo dietro la cinepresa, o dell’uomo che ha deciso dove questa debba guardare, o a monte quello che ha deciso ciò che doveva essere ripreso. Non ci si può sottrarre al giudizio della telecamera, non ci si può nascondere quando questa cerca di indagare dentro di noi, proprio quando noi pensiamo di indagare il mondo attraverso questa.

 

Fragmenta

In un angolo remoto di Barcellona si nasconde un murales particolare. Non lo notereste passandoci di fronte di notte, totalmente ignorato dalla luce giallastra dei lampioni, vedreste soltanto un’anonima piazzetta dai bar già chiusi, qualche panchina in stile moderno. E’ il murales di un bacio, due labbra che si toccano e due lingue che s’intrecciano, ed è composto da un mosaico di altrettante foto di baci, di vita, di rapporti umani di qualsiasi tipo. Di fronte la gente ci si bacia e si fa fare una foto, partecipa all’amore, ne dà dimostrazione pratica. Dice così che è tutto vero ciò che si dice.

Sullo stesso principio si sorregge un documentario-mosaico come “Fuori era primavera”

 

Come eravamo

Prima di parlare di questo però occorre fare due lunghi passi indietro e tornare al 2011, quando Ridley Scott (sì, quello di Blade Runner) patrocinato su YouTube, decide di creare il primo film in dimensione online che metta in scena la vita così com’è. Il progetto rispondeva al nome di Life in a day (lo trovate comodamente sulla piattaforma di streaming di cui sopra) ed era composto di frammenti filmici di momenti più o meno speciali raccolti in una data prestabilita dagli autori, inviati da persone qualsiasi di qualsiasi etnia, genere o religione, ordinati cronologicamente da mezzanotte alle ventitré e cinquantanove del giorno successivo, mostrati per nuclei tematici sottilmente individuati quali la nascita, il lavoro, le paure, gli amori, le speranze, la morte, la felicità.

Con questa operazione si mette in dialogo quella postuma di Salvatores, intitolata Italy in a day (2014), le cui regole sono le stesse del documentario di Scott, in ambedue i progetti è il montaggio a narrare la storia, e a quello incalzante di Scott risponde senza indugi quello poetico di Salvatores, mai repentino ma anzi sempre sospinto da un nucleo tematico all’altro con la forza delle onde in un giorno di mare calmo.

Ho rivisto Italy in a day in un momento di nostalgia per puro masochismo, ma anche per amore per la vita com’era, ho provato un misto di eccitazione ed angoscia nel guardare i bar gremiti, le persone che si abbracciano per strada, le metropolitane affollate, i baci ai figli, i baci ai nonni, i baci ai fidanzati. Il contatto è ciò che eravamo, un contatto maldestro, molle, appiccicoso, eppure vitale, preferibile comunque alla sterilità del nostro nuovo incontrarsi.

 

Fuori era primavera

 

 

Fuori era primavera è il medesimo progetto,  trasposto ai tempi del lockdown. L’ordine cronologico non è quello diurno ma quello temporale che va da quando il telegiornale trasmetteva le immagini delle grida fra i palazzi di WuHan e mia mamma scuoteva la testa quasi scettica e allontanava da sé il pensiero, al primo giorno in cui abbiamo realizzato di avere di nuovo bisogno delle cure di un parrucchiere, o di un’estetista.

In mezzo comunque, c’è stata la vita.

Una vita ancora una volta composta di nuclei tematici, una vita plumbea di bollettini tetri, numeri di morti, numeri di terapie intensive, numeri di contagi, numeri da chiamare in caso di contagi, numeri da comporre per i pazienti in fin di vita, numeri da sbarrare sul calendario. Conte la sera, Arcuri il pomeriggio, De Luca contro le feste di laurea. Alzano Lombardo, Vo Euganeo, Nembro, Bergamo. Il viavai angoscioso delle ambulanze, le auto del comune con gli altoparlanti in giro come pidocchi per strade deserte, la parata nera dei camion dei carabinieri per raccogliere le bare. Il Pio Albergo Trivulzio, lo Spallanzani.

Eppure anche bambini concepiti un po’ per noia un po’ per amore e madri coraggiose che partoriscono da sole, eppure genitori che insegnano a scrivere ai figli, eppure la musica nell’aria, eppure gli appuntamenti fugaci nei supermercati. Eppure anche quelle giornate calde di soli intramontabili, eppure la prima volta che per affacciarci alla finestra abbiamo indossato le maniche corte, eppure le sere dall’aria mite e il cielo pieno di stelle, per chi riusciva ad intravederle fra i palazzi e l’inquinamento luminoso.

Eppure, fuori nonostante tutto era di nuovo primavera.

 

Momenti di non trascurabile felicità

Fuori era primavera, ed io me lo ricordo benissimo. L’ho intravista, da dietro le finestre, ne ho sentito il calore sulla pelle nei momenti d’aria passati seduta in terrazza fra lo stendino e la ventola del condizionatore. Fuori era primavera ed io ero confinata dentro casa da almeno cinquanta giorni con un malato di covid-19.

Tornando alla domanda rivolta da Gramellini a Salvatores, se io dovessi girare il documentario della mia quarantena per frammenti, vedreste innanzitutto una routine serrata fatta apposta per supplire ad una vita di impegni  improvvisamente sottratti, in preda ad una vera e propria sindrome dell’arto fantasma.
Mi vedreste portare a termine il quotidiano giro di disinfezione delle maniglie in time lapse, e non solo delle maniglie, anche dei telefoni, dei citofoni, dei pc, degli interruttori delle lampade, dei telecomandi e per scrupolo anche del guinzaglio del cane. Voi non avete idea di quante cose si tocchino al giorno.
Sentireste suonare il telefono di casa più volte al giorno e il tono asettico delle brevi chiamate della nostra Usl locale. Sempre la stessa domanda, (“ha ancora i sintomi?”) sempre la stessa conclusione (“ancora non possiamo farle il tampone.”). E poi vedreste il vassoio della cena appoggiato davanti alla porta di camera dei miei, vedreste mio padre affacciarsi in pigiama, trascinarlo dentro la stanza, mangiare a fatica.
Vedreste moltissime lacrime, vedreste moltissimo dolore.

Ma, come ho già detto, in mezzo vedreste anche la felicità.

E per rendervene partecipi allora riprenderei proprio il primo giorno in cui mio padre si svegliò senza febbre e decidemmo che sarebbe stata una misura adeguata festeggiare con un bicchiere di birra, mi vedreste porgere il bicchiere col braccio teso dentro la stanza, ci sentireste canticchiare “birra chiara e seven up”, il primo sorriso dopo cinquanta giorni.
E per ultima cosa vorrei che vedeste con i miei occhi un giovane uomo ben vestito, con la mascherina e gli occhiali appannati, stringere fra le mani guantate un uovo di Pasqua in carta rosa, lasciarlo davanti al portone e ripartire.
E capireste che in fin dei conti la felicità è una piccola cosa, e che davvero ovunque c’è stata bellezza.

Ballare

Ricordo un momento della fase discendente della curva epidemiologica in cui già ci affacciavamo fuori dalle finestre e ci chiedevamo elettrizzati cosa avremmo fatto in quel fatidico primo giorno di libertà. Finisce così anche il documentario di Salvatores, con un lieto fine affrettato che adesso suona più come un finale di stagione, con una emozionante parata di speranze.

Ce l’avete presente la scena finale di Jojo Rabbit? La prima cosa che i due ragazzini fanno una volta fuori dalla casa e liberi dalla guerra è ballare, accennare mosse goffe su una meravigliosa versione tedesca di “Heroes” di Bowie.
Ballare, è la prima cosa che avremmo dovuto fare tutti.
Da soli, nelle piazze, al sole, lontani, ma farlo ad occhi chiusi ignorando un futuro traballante su cui nessuno ci aveva ancora istruiti, ma che ci sembrava improbabile tornasse a ricalcare il passato.
Così si chiude il documentario di Salvatores, con un carillon umano che offusca e lascia trapassare la luce ad intermittenza e Battiato che delicatamente canta l’imperativo “voglio vederti danzare”

 

Come le zingare del deserto
con candelabri in testa
o come le balinesi nei giorni di festa

 

Francesca Cullurà

È laureata in Lettere all’Università di Firenze ma se la cava discretamente anche nella sacra arte del darsi l’eyeliner. I suoi interessi sono la letteratura, la Formula1 e il vecchio cinema italiano. È convinta di saper guidare meglio di molti uomini.

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