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Preparativi di viaggio: quell’insana passione per “la lista”

UNO STALKER IN CASA

UNO STALKER IN CASA

Era il gennaio del 2002, subito dopo le vacanze di Natale. Milo aveva
ripreso ad andare a scuola e sua madre al mercato. Anche quel pomeriggio
era andata a prenderlo e avevano percorso per mano il solito
tragitto: la cartoleria, l’edicola, il bar. Arrivati a casa, lei si era buttata
sul divano e lui si era messo ad attaccare le nuove figurine sull’album.
Poi Nico si era resa conto che mancavano pane e latte. Così, si era rimessa
le scarpe e aveva detto a Milo: “Torno subito”. Lui era rimasto
da solo in casa, seduto al tavolo, intento ad aprire i pacchetti appena
acquistati.
Dopo un po’ suonò il campanello. Il bimbo si alzò dal divano e andò
ad aprire la porta, pensando che la mamma fosse già tornata. “Deve
aver dimenticato di nuovo le chiavi”, pensò. Invece davanti a lui c’era
un uomo. Indossava una divisa da poliziotto. Ne aveva visti così tanti
lì alle Minime che non gli sembrò neanche troppo strano. A volte irrompevano
negli appartamenti e li perquisivano alla ricerca di droga,
ma lui sapeva che in casa sua non ne avrebbe trovata.
L’uomo entrò, si tolse il cappello e lo posò sul divano, vicino al suo album
di figurine dei calciatori. Lo chiamava per nome, come se lo conoscesse
da sempre, eppure lui non ricordava di averlo mai visto prima.
“Qual è la tua squadra del cuore, Milo?”.
“La Fiorentina”.
“E certo! Che domanda stupida, eh?”.
Il poliziotto sorrideva con la bocca e lo guardava serio negli occhi,
lui non capiva chi fosse né cosa volesse. Le gatte osservavano immobili,
sornione, a tratti allarmate. Poi l’uomo chiese un po’ d’acqua, il
bambino prese un bicchiere e lo riempì dal rubinetto. Glielo porse.
“Allora Milo? – e gli diede un buffetto, ma lui scostò il viso – dov’è
la tua mamma?”.
“È andata a prendere il pane, poi ritorna”.
Il bimbo si mise accanto alla guardia sul divano, riprese il suo giornalino
e lo appoggiò sulle ginocchia. Lo sguardo di quel signore, dopo
aver indugiato su quelle quattro povere mura, tornò a posarsi su di
lui.
“Io invece tifo per la Juve… Come li chiamate qui quelli come me?
I gobbi! Ma vedrai che vinciamo anche quest’anno… Invece la tua
squadra è messa male, vero? Non è che va in serie B?” e, guardandosi
intorno, continuava a sogghignare, come per uno sgradevole tic nervoso.
Dalla finestra entravano le urla della vicina che sgridava la figlia,
chiedendole dove avesse nascosto le chiavi di casa. Milo squadrava serio
e calmo il poliziotto e intanto si chiedeva cosa cercasse: droga lì
non ce n’era, ne era sicuro.
Dopo aver bevuto il suo bicchier d’acqua, all’improvviso l’agente gli
chiese: “E le femmine, ti piacciono le femmine?”.
Milo annuì.
“Anche a me”, aggiunse lui.
Poi, fingendo di ricordarsi qualcosa: “Ora ti faccio vedere una cosa
ganza… si dice così, vero?”.
Il bambino assentì, poi lo guardò a faccia in su, con un’espressione
incuriosita e un po’ spaventata. Lo sbirro tirò fuori un notebook e lo
accese.
“È un Mac” disse, dandosi un tono.
Milo si incuriosì e rimase con la figurina appiccicata al dito, guardando
lo schermo col naso all’insù. All’improvviso le campane della
chiesa si misero a suonare e Milo non riusciva più a distinguere le parole
del poliziotto, che alzava la voce. Su quello schermo era scritto
“Donne in Vendita” e l’uomo scorreva tantissime foto di donne svestite.
“Quale ti piace? Questa mora tettona? La bionda tutta depilata?
Guarda che culo tiene questa, uà”. Milo si domandava che razza di poliziotto
fosse quello. Poi tra tutte quelle donne ne indicò una. “E questa?
La conosci questa?”.
Milo in quella foto riconobbe la sua mamma distesa su un letto, con
una camicia da notte rossa scura, la bocca socchiusa e uno sguardo
strano. Era veramente lei? Milo sgranò gli occhi per vedere meglio. Sì,
era proprio lei.
Sentì come un colpo forte inferto alla pancia, una sensazione di dolore
e di vergogna che non aveva mai provato prima. Aveva voglia di
piangere e voleva soltanto che quell’uomo se ne andasse. Per fortuna
in quello stesso istante sentì la porta aprirsi e vide comparire la sua
mamma.
Nico, dopo aver preso pane e latte, aveva incontrato il suo vicino che
ogni tanto le offriva un po’ di coca, ed era passata da lui. Aveva notato
una BMW decappottabile parcheggiata nei pressi di casa sua, ma non
ci aveva fatto caso: lì se ne vedevano tante di auto lussuose.
“Amore, sono tornata!”.
Vide Mister’O e suo figlio seduti sul divano. Si avvicinò, sentì il poliziotto
– un uomo stempiato e grosso – che chiedeva a Milo: “Ti piace?”,
mostrandogli la foto che la ritraeva con gli slip e il reggiseno abbassati.
In quell’attimo le cadde tutto addosso. Non soltanto il pane e il latte,
che si versò sul pavimento, ma tutto il mondo, tutti i dolori che aveva
patito, tutto l’odio che da sempre nutriva per certi maschi. La sua
mente fu assalita da mille fantasmi, mille voci all’unisono le facevano
eco nella testa. Quando la vide, lo sbirro si alzò in piedi e le andò incontro,
con una camminata tronfia, continuando a sogghignare.
“Finalmente!”, ripeteva. Allargava le braccia, ma lei gli sfuggiva. Milo
continuava a osservarli, stranito.
“Cosa ci fai qui? Vattene”, sibilò con voce bassa e tesa come una corda
d’acciaio. Lui le stava addosso, continuava a ripeterle “Quanto sei
bella”, poi si voltava verso il bambino seduto sul divano: “Vero che è
bella la mamma, Milo?”.
La schiacciò contro il muro e provò a baciarla. Nei suoi occhi brillava
una luce screanzata. Nico si sottraeva, faceva resistenza con le
braccia per impedire che il suo grosso corpo la schiacciasse.
“E non mi dai un bacio!”, la invitava, con voce suadente ma nervosa.
Prese a toccarle il seno, i fianchi, a strizzarle il culo. Con i gesti le chiedeva
di spogliarsi. Lei lo respingeva, cercava di scostarlo dal suo corpo.
Lui si innervosiva, diventava aggressivo: “Ehi Sioux – scandendo il
soprannome con sprezzante ironia – non vorrai fare la schizzinosa,
ora”.
Poi si sbottonò i pantaloni e fece per abbassarsi la cerniera. In un
lampo sfilarono nella mente di Nico brutti flashback della sua vita: le
passò davanti il ricordo di suo padre mentre faceva lo stesso gesto, ma
ora al posto della minaccia della cinghia c’era quella della pistola. In
quell’attimo rivisse in lei anche il ricordo di Loris e tutto lo schifo che
provava quando le sue mani usavano il suo corpo. Tutto si trasformò
in rabbia, in una rabbia cieca, folle, assoluta, in un odio tanto grande
che persino Milo passò in secondo piano. O forse, al contrario, la furia
fu provocata anche dalla presenza di suo figlio, perché quello che
quello sgherro armato stava facendo era la colpa più grande, la lordura
più riprovevole e disgustosa.
Il cuore le rombava nel petto, accelerando in modo disperato e incontrollato
per la paura e per l’esaltazione della cocaina, finché fu attratta
dalla violenza come da una deriva definitiva e irresistibile: in
quel momento sentì che se non voleva ricevere il male, doveva farlo.

(tratto da La rete di Elisa Giobbi, Stampa Alternativa, 2018)

Elisa Giobbi

Elisa Giobbi

Fiorentina, coltiva musica e scrittura fin dall'adolescenza. Ex editrice, è autrice di "Firenze suona", "Rock'n'roll noir", "La rete", "Eterni", "Love (& Music) Stories, "La sposa occidentale", "La morte mi fa ridere, la vita no". Presidente dell'ass. cult. "Firenze suona", organizza e dirige rassegne e contest musicali.

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