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L’impossibilità del giallo

L’impossibilità del giallo

L’impossibilità del giallo

«Il telefono sonò che era appena appena arrinisciuto a pigliari sonno, o almeno accussì gli parse”. “Riccardino sono”, disse una voce “squillante e festevole”, per dargli appuntamento al bar Aurora. Ma Montalbano non conosceva nessuno con quel nome… Un’ora dopo, la telefonata di Catarella: avevano sparato a un uomo, Fazio lo stava cercando. Inutilmente il commissario cercò di affidare l’indagine a Mimì Augello, perché “gli anni principiavano a pesargli” aveva perso “il piacere indescrivibile della caccia solitaria”, insomma “da qualichi tempo gli fagliava la gana”, “si era stuffato di aviri a chiffari coi cretini”. Si precipitò sul posto, e scoprì che il morto era proprio Riccardino.»

Questo è l’incipit dell’ultimo romanzo di Andrea Camilleri, uscito postumo quest’anno, ma consegnato nel 2005 e messo da parte con l’avvertenza di farlo uscire solamente alla morte dell’autore. Uscita di scena del personaggio, e di conseguenza dell’autore, favolosa. E cos’è che la rende speciale? Andiamo con ordine.

Cenni storici

Il termine giallo, come connotativo del genere poliziesco, è una prerogativa tutta italiana. Questa particolarità è dovuta alla collana Il giallo Mondadori che dal 1929 pubblica narrativa noir/investigativa. Stranezza che, a parer mio, la dice già lunga sulla specificità della percezione di questo genere in Italia. C’è poi un’area geografica in particolare che ha visto nascere pagine memorabili di romanzi investigativi, i quali, però, di investigativo hanno poco, se confrontati con la grande tradizione anglosassone.

Mi riferisco alla grande scuola siciliana, ed i particolare a Sciascia e Camilleri. Oggi la narrativa di genere viene spesso snobbata ed etichettata come una letteratura di “serie b”, come se potessimo creare delle distinzioni di valore tra i generi, eliminando totalmente il contributo che i singoli autori portano all’interno del genere stesso.

A ciascuno il suo

Vorrei concentrarmi, per quanto riguarda Leonardo Sciascia, sul suo meraviglioso A ciascuno il suo. Quest’opera esce per la prima volta nel 1966 e ci conduce nella tormentata psiche di un professore liceale, ossessionato dall’omicidio di un compaesano.

Ne è stato tratto anche un film stupendo, diretto da Elio Petri, ed interpretato, tra gli altri, da un incredibile Gian Maria Volontè. Questo, secondo me, è uno dei rari casi nei quali l’opera cinematografica supera la sua controparte letteraria.

Nella narrativa, di genere e non, c’è una golden rule che deve essere rispettata per creare un prodotto qualitativamente buono: Show, don’t tell! Ovvero, mostra e non raccontare. È un elemento costitutivo fondamentale che inconsciamente applichiamo nella nostra quotidianità ed è rappresentato, in modo semplicistico, dall’interrogativo comune che lo spettatore casual si pone al cinema in situazioni di particolare noia: “Ma quanto chiaccherano?”.

Il film colma quelle zone d’ombra che nel romanzo, per forza di cose, sono necessarie e fa esplodere tutto il potenziale del medium che ha a disposizione. La messinscena è maestosa e la sequenza finale è da brividi. La trama si muove negli sguardi, ed i silenzi dei protagonisti sono macigni, pesanti quanto i fardelli che si portano dietro.

Non posso svelarvi la ragione per cui ho deciso di inserire quest’opera in questo particolare contesto, altrimenti ve ne rovinerei la fruizione. Vi basti sapere che il motivo dietro la mia scelta è la causa che ne determina la difficile esportabilità all’estero. Nei paesi anglosassoni, ad esempio, il poliziesco ha delle regole ben precise: è definito Whodunit (contrazione di Who has done it?) e si regge su una costruzione solida che non ammette sgarri di sorta. Le eccezioni che potremmo trovare sono tutte, alla resa dei conti, ricondotte alla logica di partenza.

Questa peculiare narrazione può essere sintetizzata nella rottura di uno status quo di partenza, e nel conseguente tentativo di ricostituirlo. Nelle opere di cui vi ho parlato, questo non sussiste; è come se Sciascia e Camilleri ci avessero voluto fornire le coordinate per descrivere un mondo che ha delle regole a sé stanti, a partire dalla narrativa nelle quali queste si inseriscono e regolano le vite dei nostri personaggi.

Italo Calvino, come sempre in anticipo sul suo tempo, scrive in una lettera del 1965 a Sciascia le seguenti considerazioni:” Ho letto il tuo giallo che non è un giallo, con la passione con cui si leggono i gialli, e in più il divertimento di vedere come il giallo viene smontato, anzi come viene dimostrata l’impossibilità del romanzo giallo nell’ambiente siciliano”.

C’è tutto, ma il perché di questa impossibilità ve la lascio scoprire a voi. Vi consiglio di approcciare prima il romanzo del film: in questo modo avrete una panoramica completa, grazie alla quale potrete apprezzare al meglio le varie sfumature che i due autori scelgono di portare a maturazione nel loro medium di riferimento.

Riccardino

Riallacciandosi all’opera con cui ho aperto questo mio sproloquio, come si inserisce Riccardino in quest’ottica di impossibilità della narrazione poliziesca al sud? Questo romanzo è leggibile anche a sé, non avendo letto i romanzi precedenti che hanno per protagonista il commissario Montalbano.

Si tratta della lettera di dimissioni che il personaggio consegna al suo autore, e non viceversa. Il personaggio si è liberato dalle briglie che lo tenevano incatenato, e vive la sua esistenza, a prescindere dal suo creatore.  Nel narrare ciò, Camilleri attinge molto a Sciascia, già come avrete potuto notare dall’incipit, ma prende anche moltissimo da Pirandello.

In un sottile gioco metatestuale e metaletterario, mai così spinto nelle pagine di Camilleri, assisteremo ad una vera e propria battaglia tra il personaggio ed il suo autore. Riccardino rappresenta la de-cristallizzazione di questo borgo fittizio, trasformandolo di fatto, dal borgo siciliano astorico e atemporale che è sempre stato, cuore pulsante della modernità.

Camilleri attacca tutto ciò che negli anni ha divorato, non solo la sua terra, ma anche le influenze straniere che hanno plasmato e contaminato l’immaginario dello spettatore italiano medio. Combatte con un’eleganza ed una maestria propria solo dei grandi romanzieri, dei grandi narratori e dei grandi uomini. In sostanza, un giallo che riflette e polemizza col genere stesso.

L’addio a Montalbano, alla letteratura e, a conti fatti, alla vita è malinconico, struggente e dolcissimo. Spero che, se questo è il vostro primo libro di Montalbano che leggete, siate spinti a recuperare anche gli altri, potendovi così perdere nei meandri di una città mai così autentica nella sua finzione e nel suo essere sospesa nel tempo.

True detective

Sono già stato molto, forse troppo, prolisso, ma dovete concedermi ancora qualche minuto. Negli ultimi anni i serial televisivi si sono arricchiti di molti validi polizieschi, tra i quali mi piace ricordare Broadchurch Hinterland, giusto per dirne un paio.

Quello però che porto nel cuore è True Detective. Lo iniziai a guardare per la prima volta nel 2014, ero in pari con l’America e ogni settimana mi guardavo il nuovo episodio. C’era qualcosa però che non riusciva a catturarmi a pieno, o quantomeno mi lasciava leggermente interdetto a fine visione. Stavo cercando quello per cui questa serie mi era stata sponsorizzata. Volevo un giallo, un poliziesco che racchiudesse in sé quelle caratteristiche di cui abbiamo parlato poco fa.

Queste sono indubbiamente presenti all’interno della serie, ma il focus è ribaltato.

Ogni stagione ha come protagonisti una coppia di detective, per lo più opposti, che investigano su uno o più casi. Ma il vero protagonista di questa serie, o quantomeno delle mie stagioni preferite, la prima e la terza, è il tempo.

Le indagini si snodano attraverso il tempo, arrivando ad intrecciare le linee temporali e le vite dei nostri, creando delle microstorie, all’interno della macrostoria che stiamo seguendo.

Ci sarebbe da parlarne per ore, e non credo sia questo il luogo per farlo, visto che il mio intento è mettere una piccola pulce nell’orecchio di chi mi legge, per far sì che la sua curiosità venga stuzzicata e possa emozionarsi almeno la metà di quanto mi sono emozionato io.

Perché ho scelto di inserire questa precisa serie all’interno di questo articolo che parla dell’impossibilità del fare giallo? Vi elencherò alcuni punti che reputo esplicativi e solidissimi della prima stagione:

  • L’inaffidabilità del narratore: ogni vicenda viene raccontata dai nostri personaggi ad altri presenti sulla scena, ma spesso questi racconti vengono smentiti da ciò che osserviamo svolgersi nella linea temporale interessata. Se lo spettatore credesse esclusivamente a ciò che dicono i personaggi, la sua percezione dei fatti sarebbe totalmente alterata.
  • Il tempo distorce, altera e talvolta riscrive il passato. Questo vale per le indagini e vale per le relazioni personali nelle quali i nostri sono coinvolti.

Ho guardato la prima stagione 4 volte, e se dovessi spiegarvi i dettagli delle indagini, mi perderei più volte. Al contrario, però, vi saprei spiegare per filo e per segno le tappe del percorso esistenziale dei due detective. Il loro ruolo, il loro interagire è meraviglioso e fornisce la cornice perfetta a questo peregrinare nell’America rurale mai così oscura.

Rust è uno che si è fatto dieci anni come infiltrato in un cartello messicano. Faceva l’assaggiatore e quest’esperienza ha lasciato segni indelebili sul suo corpo e sulla sua psiche. È compulsivo, ossessionato, sociopatico, cinico e ossessivamente metodico. È il mio personaggio preferito.

Martin è, a prima vista, lo stereotipo dell’agente americano medio. Una bella casa, un nucleo familiare stabile, affidabile a lavoro e così via. Durante la narrazione ci saranno, però, dei crolli che lo faranno cadere in un baratro oscuro, rivelando tutta la fragilità e le contraddizioni su cui il paese che ha deciso di servire si poggia.

Più andiamo avanti nella visione e più capiamo che solamente questi due personaggi possono affrontare l’orrore puro, perché è di orrore che stiamo parlando. Lo spettatore è chiamato come parte attiva perché deve stabilire un patto coi personaggi e decidere per loro se l’orrore che stanno combattendo sia nelle loro teste, o sia qualcosa di empirico, tattile e verosimile. La risposta, ovviamente, non sarò io a darvela, ma in quello a cui deciderete di credere sarà racchiusa l’essenza della serie.

È un continuo gioco al rilancio, che impara dalla prima stagione di Twin Peaks il giocare con le aspettative del pubblico e trasporta gli eventi in un terreno stabile, conosciuto, ma mai così oscuro.

Grazie per avermi seguito in questo delirio. Spero che vi siate divertiti con me.

Un saluto e buona scoperta!

Gabriele

Gabriele Bitossi

Gabriele Bitossi

Gabriele nasce nel '96 ed è da sempre appassionato di storie, in ogni loro forma. Studia italianistica all'Università di Pisa e sceneggiatura alla Scuola internazionale di comics a Firenze. Starebbe ore a parlare coi suoi personaggi preferiti... e se lo facesse già?

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