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Preparativi di viaggio: quell’insana passione per “la lista”

EP.9: Le cose che non ci diciamo

EP.9: Le cose che non ci diciamo

“Iktsuarpok” è ciò che ci succede quando l’attesa del corriere ci spinge a comportarci da pazzi e sorvegliare scrupolosamente da dietro i vetri della finestra l’ingresso di casa e le vie circostanti in cerca di un segno, di un suono, un lampo di fari che segnali l’arrivo del nostro pacco. Al di fuori del riferimento estremamente prosaico, in lingua Inuit questa complicatissima parola descrive il tentativo di stemperare l’impaziente attesa di qualcosa che dovrà arrivare affacciandosi ripetutamente oltre la soglia di casa.

Voi lo sapevate?
Neanche io.

Finchè un giorno ho trovato nell’unico scaffale che costituiva la sezione bambini di una piccola biblioteca locale (un unico locale affollato di scatole stracolme di libri in attesa di finire la quarantena) un libro dalla copertina cartonata e le pagine traslucide: si intitola “Lost In Translation” (Ella Frances Sanders, trad. Ilaria Piperno, Marcos y Marcos, 2015) ed è la storia illustrata di tutto ciò che va perso nella traduzione da una lingua all’altra.

In poche parole, l’intraducibile.

E non si tratta solo di oggetti tangibili passibili di ostensione (tradotto: “che possono essere indicati”) ma anche di una serie di sentimenti, sensazioni, situazioni di vario tipo che al parlante di una parte di continente potrebbero essere sfuggiti, o che potrebbe aver sperimentato senza essere mai riuscito a dar loro un nome.
Il linguaggio è un reticolo entro il quale il mondo si lascia frazionare, le parole delineano i confini delle cose che conosciamo, viceversa, tutto ciò che non esperiamo cade nell’indicibile.
C’è però un terzo caso affascinante che riguarda proprio ciò che non viene detto, una terza categoria dai contorni sfumati che comprende tutto ciò che invece esperiamo, che conosciamo ma che non riusciamo ad esprimere, che va perso nella traduzione non fra una lingua e l’altra, ma fra noi e il mondo circostante.

 

Lost in translation

“Lost in translation” tuttavia è un titolo che certamente ricondurrà la maggior parte di voi ad un celebre film di Sofia Coppola di recente aggiunto al catalogo di Netflix con Bob Murray una giovane Scarlett Johansson.
Lui, celebre autore americano incastrato nel ricatto monetario della pubblicità asiatica, lei neo laureata in filosofia e moglie di un giovane fotografo, si incontrano per strane congiunzioni in un hotel in Giappone.
E’ un mondo che non parla la loro lingua e non li capisce nella stessa misura in cui loro non capiscono lui e quindi, pur lasciandosi sballottare dalla realtà affascinante di traffico e neon, ne rimangono immancabilmente ai bordi, sordi e muti.
Forse sentirsi sordi e muti, incapaci di capire e di essere capiti da un limite tangibile che è quello di non comprendere il giapponese li consola da un’altra situazione che vivono, e che viviamo più o meno tutti almeno una volta nella vita, che è quella di non essere capiti da chi invece parla la nostra stessa lingua.

Le cose che non ci diciamo

Non so se vi è mai capitato di essere travolti da un’ingiustificata e masochistica urgenza di comunicazione all’ora dell’aperitivo. Cominci a dimenarti, ti sporgi sul tavolo fradicio di ghiaccio e cocktail verso il tuo interlocutore, alzi la voce per sovrastare la musica e il chiacchiericcio, gesticoli nel tentativo di distinguerti dalla folla che ti passa accanto e nel frattempo pensi all’appiccicaticcio del tavolo che adesso si trova sulle tue mani, che ti calpesteranno la borsa, che calpesteranno te, che non sei riuscito a sovrastare proprio niente, e allora ciò che volevi dire va perso in una traduzione semplicistica.
A “come va a lavoro?” rispondi “alti e bassi”, a “com’è che vi siete lasciati?” rispondi “non andava più”.

Allo stesso modo, la depressione e il senso di fallimento di Bob vanno persi nei fili della cornetta che lo collega dall’altro capo del mondo alla moglie, la cui vita procede in una linea temporale ad almeno sei ore di distanza dal marito, ciò che vorrebbe dire rimane soffocato da interminabili silenzi e monosillabiche risposte all’annosa questione della scelta del colore della moquette.
Qualcosa di simile accade alle paure e allo smarrimento esistenziale di Charlotte, che dà tutta sé stessa al telefono per spiegarlo ad una persona che non ha tempo (o più pertinentemente non ha interesse) da impiegare nel suo dolore e lo liquida ad una chiamata futura.

Nel caso di Bob il problema di comunicazione è in grande parte suo, nella determinazione a non dare un nome a qualcosa che preferisce rimanga vago e intangibile -la sua depressione e forse l’ufficiale declino della sua carriera- nel caso di Charlotte invece l’errore è nel far ricadere la scelta del ricevente su una persona che non può decodificare il suo dolore.

 

Meglio star zitti?

C’è un altro libro che invece si trova su una mensola di casa mia, il cui titolo è la domanda retorica “Meglio star zitti?” (Giovanni Raboni, Milano, Mondadori)
Non l’ho mai letto, dunque non so se la risposta sia effettivamente retorica, mi limito a passarci davanti e a prenderlo come un monito alla mia vita, che è la vita affannosa e spasmodica di una logorroica di prim’ordine.

Mi chiedo spesso se l’errore alla base delle nostre frustrazioni non sia dovuto proprio al pensiero che le parole siano l’unico veicolo per comunicare.
Eccoci infatti che ci prodighiamo in descrizioni minuziose di ciò che proviamo, bulimie di subordinate e coordinate sperando che in mezzo al nostro arsenale grammaticale, disposto proprio perché non venga lasciato adito ad incomprensioni, chi ci sta davanti comprenda chi siamo stati, chi siamo, e magari riesca anche a darci un suggerimento su chi saremo in futuro.

Quello che succede assai spesso, è che comunque non si riesca a sovrastare il volume della musica da aperitivo.

 

Ciò che invece succede a Bob e Charlotte, dopo aver lottato così tanto per farsi capire dai nipponici e dai loro affetti, è di capirsi nel silenzio della camera d’hotel che condividono occasionalmente la notte, o di sintetizzare efficacemente le speranze e le paure di una vita intera in brevi conversazioni sussurrate sul cuscino o dipinte con ironia seduti al bancone del bar della hall, e infatti, anche a dispetto del titolo, quello della Coppola è un film per lo più fatto di silenzi. 

I due non si dicono niente di che eppure comprendono tutto, la loro è una conversazione di indizi nascosti nelle rughe degli occhi, nella scelta della marca di sigarette o del drink, nel respiro dell’altro captato in un contatto fugace a fine giornata.
Se dunque il linguaggio è il reticolo attraverso il quale frazioniamo il mondo in oggetti tangibili, va detto che a sua volta il mondo parla alle persone, mostrandosi in porzioni diverse da individuo ad individuo in base alla sua sensibilità, e capita che anche ciò che non viene detto venga ascoltato da qualcuno.

Allora io credo, confrontandomi ora per l’ennesima volta con quella copertina enigmatica, che forse sì, ogni tanto per dire qualcosa ad un’altra persona basti anche star zitti, augurandoci che questa ci stia ascoltando lo stesso. 

Che in fin dei conti è proprio quello che fa il nostro inuit che esce dall’igloo in maniera spasmodica, aspettandosi niente e sperando che qualcuno arrivi comunque.

 

 

Il Solito Post Scriptum:

Tra le parole bellissime che capita di incrociare sfogliando le pagine di Lost In Translation, ce n’è una che fa proprio al caso della comunicazione non verbale in campo affettivo. I portoghesi infatti, da secoli dispensatori di espressioni bellissime sul tempo che passa e sui rapporti umani, hanno un sostantivo, “cafuné”, per designare l’atto di passare le dita fra i capelli dell’altra persona, e qui l’autrice del libro arriva a ripiegare brillantemente sulla poetica del prosaico sostenendo, com’è vero, che ci si possa innamorare di una persona solo per il profumo del suo shampoo.

 

Questo articoletto, forse ai loro occhi lacunoso, è dedicato con tanto affetto a Federico e Giorgia, esperti del traducibile, ma anche dell’indicibile.

Francesca Cullurà

È laureata in Lettere all’Università di Firenze ma se la cava discretamente anche nella sacra arte del darsi l’eyeliner. I suoi interessi sono la letteratura, la Formula1 e il vecchio cinema italiano. È convinta di saper guidare meglio di molti uomini.

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