ON AIR


Preparativi di viaggio: quell’insana passione per “la lista”

EP.2: “Favolacce”, la vita brutta dei bambini.

EP.2: “Favolacce”, la vita brutta dei bambini.

C’era una volta un bambino solo

“Quanto vorrei tornare bambino, zero impegni, zero responsabilità” , quante volte lo diciamo?

Sui treni dei pendolari che vanno a lavoro è la frase più quotata. La si pronuncia così, sospirando, con amarezza e anche un po’ di nochalanche per mettere una distanza netta fra questa vita fatta di stratificazione di impegni e doveri gravosi e quella passata, spensierata e allegra come noi la ricordiamo.

Ma era davvero così?

In realtà quando si è bambini grava su di noi un’unica gigantesca responsabilità: essere felici.

Adesso che siete adulti e vi ritrovate quotidianamente a dover optare per la felicità o scegliere di escluderla in virtù di qualcos’altro, riuscite a concepire la portata  di tale responsabilità?

Gli adulti che individuano nei bambini l’esser felici come unico imperativo fanno di tutto perché sia così. Li iscrivono in piscina, a danza, regalano cose costose, portano avanti la favola di Babbo Natale fino alla maggiore età se serve. Si cerca di avere sempre a portata di mano una soluzione rapida che tamponi le lacrime dei nostri bambini, perché ci sono insopportabili, inconcepibili.

I bambini che percepiscono questa responsabilità fanno di tutto per ripagare il loro adulto nostalgico dei soldi e del tempo spesi per accontentarli, perché questo non pensi che in realtà non volevi invitarli tutti-proprio-tutti i tuoi compagni di classe al tuo compleanno, perché non tutti sono davvero i tuoi “amichetti”, alcuni ti prendono in giro, alcuni ti escludono, e tu non vuoi che si sappia che ti hanno escluso e preso in giro, perché riconosci il tuo unico impegno, l’unico imperativo della tua vita facile.

 

Favolacce e Favolucce

 “Favolacce” dei Fratelli D’Innocenzo (2020,Orso d’Argento a Berlino per la sceneggiatura) , è una favola vera di bambini infelici.

In letteratura si parla di “racconto corale” quando si tratta della stessa vicenda vissuta contemporaneamente in declinazioni diverse da diversi personaggi.

Nella fattispecie di questa storia il “coro”  è composto di cinque bambini, tre femmine e due maschi, alcuni figli di gente normale, altri di assoluti disgraziati, altri ancora di adulti a loro volta bambini che non vogliono crescere e non cresceranno.

La loro infelicità quindi si annida in contesti diversi, ma rimane uguale a sé stessa così come è uguale per tutti la sua matrice: la solitudine.

Sono bambini creativi e intelligenti, capiscono la scienza e scrivono diari, ma soli. Nessuno degli adulti chiede loro conto della loro intelligenza e della loro creatività, a meno che non si tratti di esibirli agli amici di famiglia come un prodotto matematico dei voti sulle loro pagelle.

A volersi focalizzare sui dialoghi emerge che non una singola domanda viene rivolta dagli adulti ai bambini, fatta eccezione per quelle retoriche che servono più agli adulti per vedersi confermati nei bambini le cose di cui sono convinti.

“Ti piace questa festa eh?” o anche “Lo sai che papà ti vuole bene, sì?”

E’ così che i figli finiscono per crescersi da soli, l’un l’altro nella loro solitudine e per questo finiscono per fare cose straordinarie, ed anche tremende.

Alcuni apprendono ciò a che a noi adulti finisce per sfuggire, ovvero che l’amore è fatto per lo più di piccoli gesti e si nasconde in cose insospettabili come il regalo della sorpresina delle patatine, e che comporta il coraggio di dire “sei bellissima” e anche di dire “resta”. Imparano che l’amore a volte è fare niente, rimanere esposti al silenzio.

Il sesso è invece una serie di imperativi fisici e morali, si tratta di assumere certe posizioni e di ricoprire certi ruoli, lo apprendono attraverso i porno su un cellulare rubato ad un adulto sconsiderato, diventa  un’attività da spuntare, un impegno fra la danza e i compiti a casa.

Crescono così, piante senza sostegni, si arrampicano su ciò che trovano nell’ambiente circostante, si attorcigliano a qualsiasi appiglio.

Ma se questo appiglio fosse un professore di scienze frustrato dalla propria vita e dalla propria professione?

Allora ecco che questi bambini straordinari diventano capaci di cose tremende, come costruire una bomba. Qual è il piano? Far saltare in aria la casa? Uccidere i genitori? Uccidersi?
Forse è semplicemente distruggere tutto e recidere precocemente il futuro infelice di cui i loro genitori gli stanno dando prova, oppure mettere fine a tutti quei silenzi e a tutto quel rumore senza senso, che come tutti i rumori non comunica niente.

A tal proposito una piccola nota tecnica per gli appassionati: il suono è frammentario, le scene si risolvono spesso in un sovrapporsi di rumori della quotidianità, dai cartoni animati alla tv, al rumore totalizzante del rasoio elettrico che falcia i capelli di una ragazzina, e i dialoghi, spesso comunque superficiali ed incongruenti sfuggono tutti e si disperdono.

Inutile alzare il volume dunque, quello che riuscirete a carpire sarà comunque sufficiente.

Una voce affidabile e chiara per lo spettatore è invece quella del narratore (Max Tortora), che finge di aver ritrovato in un cassonetto il diario di una bambina “scritto a penna verde”, e di averlo  poi completato laddove si interrompeva e le pagine diventavano bianche, regalandoci i momenti di raffinata sceneggiatura che gli sono poi valsi l’Orso d’argento a Berlino.

“Quanto segue è ispirato ad una storia vera. La storia vera è ispirata ad una storia falsa. La storia falsa non è molto ispirata”

Dichiara inizialmente e conclude con il rammarico di aver raccontato a noi questa storia “insensata e amara”, a noi spettatori che forse ci saremmo meritati una storia più reale.

Insomma, noi che invece di questa freschissima favolaccia, avremo preferito la solita quotidiana favoluccia.

Post Scriptum:

nel caso in cui il film vi piacesse e foste abbastanza squinternati da affezionarvi alla tematica della vita difficile e straordinaria dei bambini, consiglio vivamente di recarvi in libreria e acquistare un libro di Niccolò Ammaniti, che si dedica alla tematica con passione e cinismo sin dagli albori della sua carriera.

Il classico “Io non ho paura” o anche “Ti prendo e ti porto via” andranno benissimo.

Allora, è o non è un blog crossover?
 

Francesca Cullurà

È laureata in Lettere all’Università di Firenze ma se la cava discretamente anche nella sacra arte del darsi l’eyeliner. I suoi interessi sono la letteratura, la Formula1 e il vecchio cinema italiano. È convinta di saper guidare meglio di molti uomini.

Articoli Correlati

Commenti