Mi è bastata una sola puntata di Shrill per gridare al miracolo. Mi è bastata una sola puntata per ritrovarmi in lacrime a più riprese, grazie alla forza della pura gioia, della sopresa, del compiersi di un desiderio covato da anni. In tempi recentissimi si è iniziato a parlare in maniera massiccia, anche in Italia, di body positivity, il movimento di accettazione e promozione di un sano rapporto con il proprio corpo a prescindere dalla sua taglia o conformazione. Pur avendo diversi limiti (primo su tutti il primato sempreverde del concetto di bellezza come elemento di definizione, ne parlo qui) l’approccio body positive alla vita ha finito per rendere ancora più evidente ciò che era palese da tempo: nel contesto della narrazione per immagini certi tipi di corpo, soprattutto femminile, non sono rappresentati, oppure sono rappresentati come macchiette, sviluppati semplicemente in funzione del proprio peso, magari con quell’atteggiamento di autocommiserazione e autoavvilimento tanto tipico del personaggio grasso che deve dare delle giustificazioni al fatto di essere grasso (ne parlo qui).
Grasso. Diciamola questa parola. Non è un insulto, a meno che non si voglia utilizzarlo come tale. Come chiamate la parte bianca del prosciutto? Adipe? Morbidezza? Curve del suino? No, si chiama grasso. Se nel mio corpo è presente e a me sta bene così, che problema c’è nel definirmi una donna grassa? Ma torniamo alla rappresentazione. Parlando di serie tv, era veramente molto tempo che aspettavo una protagonista (non una spalla, un’amica di, una lontana cugina) con cui riuscire a immedesimarmi sul piano umano, ma anche e finalmente su quello fisico. Annie Easton (Aidy Bryant, anche produttrice e sceneggiatrice) è una giovane donna sovrappeso che vive a New York. Il suo sogno è quello di diventare una giornalista, ha una storia sentimentale con un bambinone che spera di sfondare con un brutto podcast su Alcatraz, vive con la migliore amica e tenta di fare i conti con la madre ipercritica e il padre malato di cancro.
Annie non è perfetta. Non coincide con lo stereotipo della donna grassa che compensa il proprio aspetto con un’integerrima fibra morale e una melensa propensione a compiacere gli altri. Ha momenti in cui si comporta da persona pessima, egoista, arrogante. Ah, l’arroganza. Una di quelle cose che alle donne grasse viene preclusa più dei bikini. Annie invece se la riprende, perché il suo non è un percorso di accettazione, è un percorso universale di realizzazione professionale, amorosa, famigliare, umana. Annie ha già accettato se stessa, non la sentiamo mai parlare di dieta, non la vediamo stare davanti allo specchio con il broncio perché non sa cosa indossare, non la vediamo scappare piangendo se le dicono che la pillola del giorno dopo non ha effetto sopra una certa soglia di peso (per altro non ne avevo idea, che cosa folle!).
Il rapporto di Annie con il proprio corpo, uno dei primi veri corpi grassi visti in tv non costantemente orientato all’ossessione per il peso, è sereno, consapevole, sessualmente disinvolto, assertivo sul posto di lavoro, equilibrato anche nel momento in cui la protagonista deve decidere cosa fare di una gravidanza indesiderata. In sostanza, la storia di Annie è la storia di una normalissima donna americana che incidentalmente è anche una donna grassa. La sua storia non viene ghettizzata dal suo aspetto, la percentuale di massa grassa nel suo corpo non è l’elemento portante del suo percorso, non ne delinea le svolte, non riempe lo schermo. C’è un momento molto significativo nei primissimi episodi di Shrill: per un’incomprensione piuttosto buffa, Annie si trova a parlare con una personal trainer che le dice quanto sarebbe splendida se fosse magra e che dentro di lei c’è sempre stata una Annie magra che sta solo aspettando di emergere. Spazientita, Annie la manda a fanculo sottovoce, la tipa sente e se ne va chiamandola “fat bitch”, una grassa stronza. Che fa Annie? Si gira e riprende la propria strada, sorride perché a lavoro ha avuto proprio un’ottima giornata. Sigla.