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Intervista a Stefano Senardi: il discografico amico degli artisti

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Se dovessi elencarvi tutte le esperienze e gli artisti, nazionali ed internazionali, con i quali ha lavorato questa persona faremmo sicuramente notte. Vi basti sapere che se oggi conosciamo artisti come Jovanotti e Capossela è anche per merito suo. Sto parlando di Stefano Senardi, che definire discografico è riduttivo: appassionato di musica e di marketing fin da ragazzo, divenuto prima direttore generale di CGD East West (Warner) e presidente della Polygram poi, si è fatto le ossa con Caterina Caselli che era ancora uno studente e ha portato al successo tantissimi progetti musicali con le sue idee e la sua determinazione. I Litfiba firmando con lui sono passati da 4.000 a 400.000 copie vendute. Mica bruscolini.

È sua la realizzazione del Best Of di Frank Sinatra nel 1983: sono più di 500.000 le copie vendute, tanto che il crooner venne in Italia subito dopo per esibirsi in uno storico concerto milanese, nell’allora appena inaugurato PalaTrussardi. Direttore artistico di RadioFandango, consulente per la Sugar di Caterina Caselli e per programmi televisivi come X-Factor, Festival di Sanremo e Che tempo che fa, Senardi è una macchina da guerra, un turbinio di idee ed energia.

Disponibile, gentile e professionale, l’ho raggiunto al telefono per farmi raccontare qualche aneddoto legato agli anni d’oro della discografica italiana e per fare quattro chiacchiere su come stia il mercato oggi, soprattutto in Italia.

 

Ciao Stefano, grazie anzitutto della tua disponibilità e benvenuto su WiP Radio. La prima è una domanda a bruciapelo: come sta la discografia italiana? Qual è il suo stato di salute oggi?

Meglio di quanto si pensi. Le grandi aziende sono finalmente in un momento di piena trasformazione, con cenni di ripresa anche al loro interno, nonostante i valori siano cambiati e la rete la faccia da padrona: da iTunes a Spotify sussiste un vero e proprio controllo del mercato, basti pensare a come queste piattaforme influenzino le classifiche e permettano di raggiungere più o meno facilmente la vetta del disco di platino, che, in maniera non poco assurda, oggi comprende anche il conteggio dei dati dello streaming. Persino i download e gli stream gratuiti vengono conteggiati, introducendo falsi valori sul mercato. Nonostante ciò, questi fornitori di musica restano indubbiamente una grandissima opportunità: anche io da ascoltatore ne faccio ampio uso. Il problema è che i guadagni ottenuti non vengono reinvestiti, tanto meno in Italia, e queste piattaforme pagano pochissimo l’industria, che ripartisce altrettanto poco anche ai poveri artisti. Alla fine l’industria stessa, per necessità, si è dovuta riorganizzare e ricompattare, benché spaventi un po’ che in alcune multinazionali posizioni importanti siano occupate da analisti anziché da talent scout.

 

Volevo tenermi questa come ultima domanda ma colgo invece l’occasione per fartela ora: se tu oggi dovessi andare a caccia di nuovi talenti, dove andresti a scovarli? Su youtube o in un evento di musica live?

In Italia, per fortuna, si sta smuovendo qualcosa: ci sono numerose piccole etichette e nuovi artisti giovani che, al di fuori della grande industria, stanno facendo numeri importanti. Penso a Ghali, i Thegiornalisti, Levante, Lo Stato Sociale, Brunori, Liberato, Calcutta, Cosmo, gli Ex-Otago… ce ne sono tantissimi e tutti usciti da situazioni indipendenti. Tutto ciò fa riflettere e lascia ben sperare che si possa avere successo non soltanto passando attraverso la tv e i grandi canali mediatici. Questi personaggi nascono dai locali, dalla strada, da situazioni di musica inedita dal vivo che si sono evolute, grazie a locali che finalmente hanno abbandonato la brutta abitudine tutta italiana di dare spazio solo a cover.

Certo, poi c’è anche la rete, che questi soggetti sanno usare bene: Ghali è figlio di Spotify, che ne ha sposato il progetto contribuendo a fargli ottenere milioni di plays, senza etichette o major, in maniera tutta indipendente. I canali alternativi oggi esistono, non è più obbligatorio andare in radio o in tv, anche se a volte una spinta aiuta: il fenomeno Ghali è stato aiutato da alcune radio, come Radio Deejay, che hanno creduto (come già accaduto per Levante, ndr) in progetti nuovi, dando fiducia al mercato e ai giovani musicisti.

Tutti questi nuovi progetti sono guidati da etichette governate spesso da giovanissimi, a volte da amici stessi degli artisti: chi fa musica oggi può provare a rivolgersi a loro, sono tutti scenari nuovi che sfruttano bene le risorse a disposizione, senza piegarsi a logiche o contratti strani. Non conviene provare a rivolgersi subito a una major: certo, arriverà un momento in cui il progetto crescerà talmente tanto che ci si dovrà appoggiare ad una multinazionale che, a quel punto, farà da banca, sostenendo economicamente il progetto.

Se prima la musica cosiddetta indie era talmente indie da suonare autoreferenziale, quasi incomprensibile e per pochi, oggi credo sia nato un nuovo equilibrio fra autonomia e comunicabilità.

 

 

A proposito di risorse, la Regione Puglia ha dato vita, da anni, a Puglia Sounds, una bella realtà con la quale hai collaborato e che valorizza, soprattutto a livello economico, lo sviluppo del sistema musicale. Come mai, secondo te, nelle altre regioni non esiste nulla di simile? Come si potrebbero incentivare le regioni a dare vita a progetti simili (penso alla nostra Liguria ma non solo)?

Tutto dipende dalle persone: Antonio Princigalli, che ora non è più a Puglia Sounds ma lo ha guidato dal 2010 al 2016, ai tempi di Vendola, che ha sempre sostenuto che con la cultura si potesse mangiare, si era inventato questo progetto che la regione ha accolto e sostenuto con entusiasmo, soprattutto perché in questi anni ha creato cultura, conferito valore aggiunto ed fornito risorse, non solo locali, ottenendo sostegno economico dall’Unione Europea. Ricordiamo che quando l’Unione Europea ti dà dei soldi devi dimostrare che fruttano… e in questo caso hanno soddisfatto ampiamente le aspettative.

È stato uno dei progetti più belli ai quali abbia lavorato, unico in Italia e in parte anche a livello europeo. Dovremmo ispirarci alla Francia, dove vi è proprio un approccio diverso, di tutela del patrimonio artistico musicale francese e non solo, dove anche a scuola si fa musica in modo molto diverso, più serio. Qui in Italia l’educazione musicale latita, anche se qualcosa si sta muovendo grazie al ministro Franceschini, al fine di tutelare la musica popolare e d’autore, a piccoli passi ma meglio che niente.

Sono le persone, insomma, a fare la differenza.

 

Il tuo curriculum, tuffo al cuore per gli appassionati di musica ma non solo, è imponente ed importante: hai lavorato con e per grandissimi artisti, sia nazionali che internazionali, mostri sacri come Frank Sinatra, di cui hai curato il best of che vendette più di 500.000 copie, i Simply Red, Tracy Chapman e moltissimi altri, l’elenco è lunghissimo. Com’è stato vivere quegli anni, anni che probabilmente, per l’entusiasmo e i risultati ottenuti, difficilmente ritorneranno? Ci racconteresti, poi, un aneddoto che ricordi con piacere e che riguarda qualcuno di questi artisti?

Lavorare era un vero piacere: ho cominciato a 22 anni facendo carriera da giovanissimo, diventando uno dei presidenti più giovani d’europa (a 36 anni è presidente della Polygram, ruolo che ricoprirà dal 1992 al 1999, ndr). Nel periodo in cui lavoravo in Warner (WEA e CGD) ho conosciuto subito una serie di artisti pazzeschi: era un ambiente stimolante, una casa multirazziale, con donne afroamericane ai vertici, gente che aveva scoperto personaggi come Aretha Franklin, i Led Zeppelin. Ricordo ancora quando portavamo i nostri artisti ospiti al Festival di Sanremo: era una pacchia, tutti giovani, nessuna rivalità, stavamo bene economicamente e personalmente.

Io nasco come appassionato di musica, avrò ascoltato più di 25.000 dischi in tutta la mia vita: in quel periodo ricordo con piacere che agli artisti piaceva chiacchierare, parlare di musica, farsi raccontare e raccontare aneddoti. Una volta sono stato con Paul Simon a Sanremo (era il 6 febbraio 1987 e Simon fu ospite, insieme a Duran Duran, Whitney Houston e molti altri artisti, dell’evento di contorno al Festival, presentato al PalaRock di Sanremo da Carlo Massarini, ndr). Era in tour per presentare Graceland accompagnato dalla sua band africana ed io andai a prenderlo all’aeroporto di Albenga: la stessa sera si sarebbero esibiti i Duran Duran e ad attenderci c’erano centinaia di ragazzine in delirio che aspettavano l’arrivo di Simon le Bon. Quando videro scendere dall’aereo tutti i musicisti di colore insieme a Simon rimasero delusissime. “Non erano qui per me, vero?” mi chiese e ci facemmo una risata. Lo portai a visitare Bussana Vecchia, in giro per l’entroterra ligure. Nonostante il bodyguard insistette per guidare e glielo lasciai fare. Una persona splendida.

Un altro mito che ho conosciuto è George Harrison, che portammo a Sanremo l’anno seguente (era il 1988, ndr), ospite insieme a A-ha e Robbie Robertson. Restò in Italia tre giorni insieme alla moglie e al figlio. Andammo a prenderlo in aeroporto ma non sapevamo che ci sarebbe stato anche quest’ultimo: stretti dietro, mi offrii per tenermi sulle ginocchia la sua valigia ma lui insistette per non farlo, scusandosi di non aver avvisato della presenza del figlio. Anche in questo caso li portai in giro per l’entroterra, a visitare nuovamente Bussana, Badalucco… Insomma, una persona squisita, di grande gentilezza, educazione ed umiltà.

 

 

Nel corso della tua carriera ed esperienza hai contribuito moltissimo al successo di molti artisti nostrani, come Jovanotti, i Litfiba, Grignani, Zucchero: volevo chiederti intanto quanto fosse impegnativo e faticoso far decollare la carriera di un artista all’epoca, quanto possa esserlo oggi e come siano cambiate in questi anni le dinamiche e gli approcci da utilizzare a tal scopo. In sostanza, domanda che può sembrare retorica, oggi è più difficile ottenere gli stessi risultati di un tempo?

All’epoca con gli artisti italiani era tutto più facile: io ero matto di marketing, mi inventavo mille cose, dai gadget alle presentazioni più strane. Pensa che quando uscì Penso Positivo di Jovanotti feci aprire La Feltrinelli a mezzanotte per presentarlo al pubblico. Ce ne inventavamo una al giorno. Io ero un presidente giovane circondato da giovani in gambissima, avevo una squadra meravigliosa, ci divertivamo tutti come dei pazzi. Tutti avrebbero voluto venire a lavorare con noi in Polygram, eravamo i numeri uno, non ci fermava nessuno. Più le cose andavano bene, più ci inventavamo cose nuove: mi ricordo ancora la collana La Musica di Dio di musica religiosa uscita per il Corriere della Sera (era il 1995, ndr) o ancora certi dischi in fascia economica di cui avevamo abbassato i prezzi. Erano gli anni in cui stava arrivando Internet.

Con gli artisti era tutto più facile: si stava delle ore a parlare, ad ascoltare musica, da noi c’era molto più entusiasmo, più tempo a disposizione, nascevano dei veri e propri rapporti di fiducia. Nei nostri uffici si ascoltava musica in continuazione, era un piacere venire a trovarci e passare del buon tempo insieme. Pensa che uno dei miei capi mi disse che non avrei mai fatto carriera proprio perché ero troppo amico degli artisti: si sbagliava. Ora è tutto più freddo, asettico, automatico ed è un peccato.

All’epoca ricordo ancora che con Vinicio realizzavamo tre/quattro videoclip per disco, affiancati da registi in gamba e motivati: i video dei nostri artisti erano sempre video della settimana su Videomusic, facevamo davvero tantissime cose e belle.

Oggi tante cose sono cambiate: l’autogestione dal basso funziona, le grandi aziende lavorano bene sui dischi importanti e la distribuzione fisica è ancora centrale nella carriera di un artista. Più si cresce più si deve poter arrivare a tutti con un disco. Diciamo che l’approccio deve restare lo stesso: premesso che si deve avere fra le mani un progetto che funziona musicalmente, che sia di qualità, il marketing è sempre fondamentale. Bisogna essere creativi ed avere inventiva anche sotto questi aspetti.

 

Chiudo con una domanda per me. Sono da anni ormai grandissima estimatrice del maestro Capossela: mi racconti com’è lavorare con un artista così geniale?

È bello, straordinario! L’ho conosciuto fin dagli esordi, una persona straordinaria. Una sera ai tempi dello spettacolo Pop & Rebelot di Paolo Rossi, di cui Vinicio aveva curato tutte le musiche, andai in camerino da loro, eravamo al Teatro Ciak di Milano. Dissi loro “Sono venuto a portarvi via!” “Ma mi hai detto che non ci saremmo mai lasciati” mi rispose Vinicio, con cui avevo fatto i suoi primi quattro dischi. In effetti il contratto che avevamo firmato era vincolante, per cui era molto difficile che potesse andarsene dalla CGD Warner. Quando si cominciano a realizzare dischi con la stessa discografica non conviene comunque andarsene, pensa solo al fatto che tutto il catalogo è curato da un’azienda sola. Vinicio è, in ogni caso, un artista stupefacente.

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