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Il giardino delle vergini suicide | Il Cinema dei Margini

Il Cinema dei Margini

Il significato del termine margine (dal latino margo-ìnis) rimanda all’idea della parte estrema di una superficie.
Allo spazio, all’ ambito entro cui qualcosa può attuarsi.
Nei fogli scritti o nelle pagine stampate, il margine, è lo spazio bianco che si lascia sui quattro lati.

Nel cinema il margine è quel confine che sancisce la separazione tra un dentro e un fuori.
La soglia in cui realtà e irrealtà si scambiano.

Il Cinema dei Margini è, dunque, quella lente che ispeziona questi luoghi a metà.
Che ci mostra e ci traduce questi orli in cui le vite sono come fosforescenti.
Esistenze illuminate da una latente diversità sotto un’ apparenza qualsiasi e regolare.
Bruciate da una dolorosa intensità.

Il Giardino delle Vergini Suicide

A metà degli anni Settanta, in una cittadina del Michigan, le adolescenti sorelle Lisbon, cinque splendide creature, rappresentano per i ragazzi del vicinato il punto fermo attorno a cui il mondo ruota.
Tanto magnifiche, quanto inaccessibili, le ragazze Lisbon vivono all’interno delle loro stanze un dolore segreto.
Quello che le costringe, a partire dal suicidio di Cecilia, la più piccola tra le sorelle, ad una lenta e irreparabile rinuncia alla vita destinata a impressionare per sempre la memoria dei sopravvissuti.

PRODUZIONE: U.S.A
ANNO: 1999
GENERE: drammatico
CAST: James Wood, Kathleen Turner, Kirsten Dunst, Chelse Swain, Danny De Vito, Josh Hartnett, Scott Glenn, Jonathan Tucker, Leslie Hayman, Hanna R. Hall, A.J Cook
SCENEGGIATURA: Sofia Coppola
FOTOGRAFIA: Edward Lachman
MONTAGGIO: Melissa Kent, James Lyons
SCENOGRAFIA: Jasna Stefanovic
MUSICHE: Brian Retzell
REGIA: Sofia Coppola

“Ciò che a noi rimaneva era un puzzle incompiuto. Ci restava uno straordinario vuoto che si modellava armoniosamente intorno a loro come fossero paesi a noi sconosciuti”.
È la voce fuori campo di uno dei ragazzi che all’epoca dell’inquietante vicenda Lisbon ne seguì da vicino i risvolti, a introdurci con toni di infantile stupore tra le vite macchiate di prematura morte delle cinque sorelle.
Le riporta in vita come chi evoca i miti di un mondo altro; creature eteree, irresistibili e avvolte da un impenetrabile mistero.
L’enigma femminino che cerca di essere penetrato e compreso dallo sguardo tutto al maschile del vicinato che ne registra ogni trasformazione.

Il suicidio della più piccola tra le ragazze Lisbon è solo l’incipit noir del destino che insidierà le vite delle splendide sorelle.
Un destino impostato e offerto alle ragazze da un’ossessiva e asfissiante iperpresenza materna e da una controparte paterna del tutto impercettibile.
Una vita mutila quella che Lux (Kirsten Dunst), Cecilia (Hanna R. Hall), Therese (Leslie Hayman), Mary (A. J. Cook) e Bonnie (Chelse Swain) sono costrette a vivere.
Una vita sottotono, sottomessa, sotto controllo.
Ma se c’è un’età in cui il controllo non può essere diretto è quella dell’adolescenza; la terra vergine in cui ci si muove come in un sogno per provocare la vita.
Qui è situato il giardino delle vergini suicide. Nella dimensione fertile in cui ogni variazione emotiva è portata al parossismo.
Lì dove non vi sono limiti né per il bisogno d’amore, né per l’urlo disperato del dolore.
Ed è in questo giardino metaforico in cui persino gli alberi si stagliano ammorbati che le sorelle Lisbon trovano nella morte l’unico loro mezzo di vita.

Ispirato al romanzo di Jeffrey Eugenides Il giardino delle vergini suicide è il primo lungometraggio che vede l’esordio alla regia di Sofia Coppola.
Un’opera complessa, ma mai gravosa.
Un ottimo esercizio di stile in cui il lieto convivere di tragedia e leggerezza generano nello spettatore un effetto straniamento che rende l’intero film una sorta di viaggio onirico sospeso al di là di ogni spazio e tempo.
Un percorso teso a rintracciare nella memoria e negli sguardi di chi le ha conosciute l’appariscente esistenza delle sorelle Lisbon senza l’intento moralistico di analizzarne l’estremo gesto di morte, ma semplicemente restituircene l’essenza.
Un po’ angeli, un po’ donne, un po’ sirene.

“In fondo non importava la loro età e neanche che fossero ragazze. La sola cosa che contava è che le avevamo amate e che non ci hanno sentiti chiamarle e ancora non ci sentono che le chiamiamo, perché escono dalle loro stanze dove sono entrate per restare sole per sempre e dove non troveremo mai i pezzi per rimetterle insieme”.

 

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