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I Sommersi

giaguaro

I Sommersi

Ho dovuto sfogliare il giornale fino a pagina diciotto. Eppure prima c’era riportato ogni sbadiglio di deputato, tutta l’esposizione di ladri, mignotte, faccendieri nostrani dall’Alpi alle Piramidi, premier attenti a costruire il proprio mito e poi, finalmente e terribilmente, la notizia di circa 300 minatori (uso circa perché il numero è destinato a variare) morti intrappolati e soffocati in una miniera di carbone a Soma in Turchia. Qualcuno potrà dire “ma la Turchia è lontana” (ma ne siamo sicuri?) e poi “ma sono robe da turchi“, dimenticando che la causa della morte di questi poveracci non è data dai gas velenosi della miniera, ma da un gas più subdolo che si chiama privatizzazione, che si chiama riduzione del costo del lavoro a scapito della sicurezza e della qualità del lavoro stesso. Non lo ha detto pochi giorni fa il nuovo proprietario “privato” della miniera di essere riuscito ad abbattere il costo a tonnellata del minerale? Peccato che con il costo abbia abbattuto anche 300 vite di lavoratori, ma cosa sono di fronte al ritmo incessante della produzione, lo ha detto lo stesso premier di destra della Turchia (rieletto trionfalmente da quella parte della popolazione alla quale i diritti interessano relativamente poco), sono incidenti che capitano, soprattutto in aziende che vivono la privatizzazione come forma di clientelismo e di sottogoverno. D’altra parte in tempi di crisi strutturale in cui occorrerebbe ripensare l’intero modello di sviluppo, la vita umana nella produzione globalizzata è una variabile indipendente, sia essa quella del minatore turco sia quella del migrante che viene a lavorare nei campi di pomodoro e muore affogato nel canale di Sicilia. Ossia si cerca di rimediare alla crisi mondiale usando gli stessi mezzi e modelli che l’hanno alimentata. A Soma si è assistito in più anche all’ostentazione vergognosa di un potere politico privo di dignità, di un presidente Erdogan che sbeffeggia i parenti delle vittime e i cittadini usando termini antisemiti come “sperma di Israele” (sì ,proprio quel premier che era portato ad esempio da un nostro ex presidente del consiglio), di un suo consigliere politico, pura feccia umana, ripreso in elegante completo scuro mentre prende a calci un dimostrante, opportunamente immobilizzato da due poliziotti. E alla fine, paradossalmente, è stato un bene perché se non ci fosse stato questo gesto così odioso, i minatori sarebbero finiti magari alla pagina venticinque, sommersi dalla valanga di informazioni spesso futili, così come lo sono stati a mille metri sotto terra, morti per mancanza di ossigeno e per privatizzazione feroce. Per l’appunto questo fatto è avvenuto mentre in un paesino della Toscana, Ribolla, si ricordava, proprio in questi giorni, la tragedia della sua miniera di lignite nel 1954: 43 morti sacrificati ai grafici della produzione, ai metodi di escavazione da rapina, all’abbattimento del prezzo a tonnellata. Fu un grande scrittore grossetano di quel periodo, Luciano Bianciardi, a raccontare la dura vicenda di Ribolla, i suoi silenzi, la sua rabbia, la voglia di scoprire i veri mandanti che si annidavano nei grattacieli scintillanti di Milano (nel suo romanzo “La vita agra”). Chissà se i minatori di Soma troveranno chi li ricorderà come Bianciardi ha ricordato i minatori di Maremma? Resta tuttavia irrisolta una domanda: si può morire di lavoro? Si può morire per vivere? Si può uscire di casa per andare al lavoro con l’incertezza di ritornarci? Questa tragedia si leggeva nella faccia di madri, di mogli, di figli, nel loro dolore così simile a quello delle foto in bianco e nero di Ribolla nel lontano 1954. Io figlio, nipote e bisnipote di minatori, il primo della famiglia a non essere entrato nel sottosuolo, ricordo ancora quando mi raccontavano che quando nonno lavorava nel turno di notte i figli non uscivano di casa per andare a divertirsi perché da un momento all’altro poteva arrivare la notizia di un infortunio o peggio e bisognava stare a casa ad aspettare. Ecco perché quelle facce le sento come mie, stessa faccia stessa razza, ecco perché di fronte alle stesse parole d’ordine del capitalismo più selvaggio e vergognoso, mi sento anch’io un turco.

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