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Chiunque si innamori è un disperato

Chiunque si innamori è un disperato

Chiunque si innamori è un disperato

Buongiorno a tutti. Da oggi ho intenzione di recuperare un po’di lettere e di messaggi che mi avete mandato negli ultimi tempi. È vero, vi ho un po’ trascurati. Inizierei da una toccante richiesta che ruota su un tema estremamente attuale: amore e tecnologia. Una lettrice mi ha chiesto di recensire il suo film preferito, “Her”, diretto da quel videoclipparo di Spike Jonze (2013).

Il protagonista Theodore è un uomo solo, che tenta maldestramente di curare il suo cuore infranto tuffandosi a capofitto nell’universo virtuale da cui è circondato. La notizia del suo legame con “Samantha”, un nuovo sistema operativo, non viene accolta con troppo stupore dagli amici di Theodore, per i quali, indipendentemente da chi (o cosa) sia l’altro, “chiunque si innamori è un disperato”. Probabile, ma in questa pellicola c’è di più.

Samantha c’è sempre quando lui vuole che ci sia; è uno stare assieme che non presuppone stress o attese. Una presenza che, brutalmente, può accendere e spegnere a piacimento. “Non sapeva come gestirmi e adesso è innamorato del suo laptop”, dice l’ex di Theodore: dove finisce l’amore e dove inizia la comodità di un rapporto che, almeno sulla carta, si può gestire nel modo e nei tempi a noi più congeniali?

La trama

Los Angeles, 2077. In un futuro prossimo, non troppo dissimile dal nostro presente, Theodore Twombly lavora per un servizio di lettere d’amore conto terzi, in una città dove la tecnologia funziona ormai solo attraverso dita e comandi vocali. Stroncato dal fallimento del matrimonio con l’ex moglie, dopo una vita trascorsa insieme, trascina un’esistenza sciatta e attonita, in cui molto spesso i ricordi struggenti ritornano. Ha un animo gentile, malinconico, e cerca di colmare i vuoti con videogiochi interattivi e la frequentazione di audiochat erotiche.

Un giorno, viene a conoscenza di un evoluto sistema operativo, che sembra compensare in modo perfetto il bisogno di relazioni. Un OS1, il cui spot significativamente recita: “Un essere intuitivo che ti ascolta, ti capisce e ti conosce. Non è solo un sistema operativo, è una coscienza”. L’OS si presenta al protagonista col nome di Samantha, stupendolo fin dai primi scambi di parole per la capacità di apprendere, di improvvisare, di creare: sembra terribilmente umana.

La consapevolezza che si tratta di una voce virtuale, alla quale non corrispondono né un corpo né dei sentimenti reali, non impedisce a lui di affezionarsi. Theodore e Samantha si diventano sempre più indispensabili. Il loro rapporto assomiglia sempre di più all’amore. E, improvvisamente, il nostro protagonista, che per lavoro crea l’amore per gli altri, rimane vittima dello stesso meccanismo, innamorandosi di un sistema operativo creato da qualcun altro.

Una Love Story nell’era della condivisione

A partire dalle macerie della propria relazione con l’ex moglie Sophia Coppola, Spike Jonze crea una Love Story nell’era della condivisione. La storia tra Theodore e Samantha è di una dolcezza penetrante, senza essere stucchevole. Per quanto assurdo, il loro legame sul filo della voce ha il romanticismo emozionante dell’amore impossibile. I due vanno in barca insieme, in vacanza, al mare. Lei lo segue e guarda il mondo dal device che spunta dal taschino della camicia di Theodore: basta un auricolare, e Theodore non è più solo, ma con “Lei”, ovunque.

In un’epoca in cui il processo tecnologico ha generato un vero e proprio autismo relazionale a causa del quale ogni individuo riserva più tempo ad alienarsi dal mondo dietro schermi di computer e dispositivi mobili piuttosto che dedicarsi a vere relazioni umane, Jonze confeziona un film toccante, geniale, mai eccessivo né melenso, un film che va ben oltre il rapporto tra l’uomo e la tecnologia.

“Her” parla dell’amore e della vita, della scoperta di sé e dei propri desideri, della solitudine. Una solitudine nascosta dietro i sorrisi sommessi del protagonista, che scrive lettere d’amore per gli altri ma non trova l’amore per se stesso. Theo si proietta sugli altri, per non guardare a sé, vive illudendosi, e la virtualità costituisce la via di fuga maestra dalla propria inadeguatezza relazionale: è la sua autodifesa.

Come rivelato dallo stesso regista, si tratta di una pellicola che tende a voler sollevare domande, più che offrire risposte, presentando un simbolico spaccato delle relazioni di oggi, in cui l’altra faccia della medaglia della totale libertà di scelta è destinata ad essere la solitudine, appunto. E in cui la tecnologia, dai social in poi, è destinata a mettere in progressiva difficoltà la capacità di entrare in relazione con l’altro, vedendolo e amandolo per quello che è, libero da idealizzazioni e proiezioni.

Va in scena il fantasma isolazionista che abita i nostri desideri, e finalmente porta alla luce l’incubo definitivo: una relazione priva di relazione. Una “follia socialmente accettabile” da una società popolata da individui asociali: asettica e spettrale, silenziosa e abbandonata dal caos. Los Angeles è sempre popolatissima, ma di persone che sui marciapiedi, in metro, al mare parlano da sole. Quantomeno in apparenza, perché dall’altra parte c’è OS1.

Generi diversi, brillantemente incastrati

Il cineasta di Rockville ha impiegato anni per completare l’incredibile sceneggiatura di Her, talmente articolata, spericolata, visionaria, struggente e poetica da lasciare senza fiato. Un’opera semplice eppure complessa, fondata sull’amore e sulle relazioni, inclassificabili ed immodificabili, persino tra uomini e macchine, cuori pulsanti e chip. L’Oscar per la migliore sceneggiatura originale è meritatissimo.

Alla sgargiante fotografia di Hoyte van Hoytema, tutti colori pastello e anacronisticamente vintage, si accompagna una splendida colonna sonora, curata dagli Arcade Fire, che permette di ricordare quanto la musica sia importante ai fini della narrazione.

“Her” mescola i generi, scavando nei sentimenti più complessi. E, con sapienza, riesce a toglierci di dosso ogni tentazione di giudizio nei confronti di Theodore, che sembra così simile a noi. Un atipico film di fantascienza, e un’altrettanto atipica commedia sentimentale: un tutt’uno che evita le banalizzazioni che funestano le pellicole a sfondo amoroso dei giorni nostri, e ci risparmia sdolcinati happy ending, passioncelle stereotipate e attori bellocci e inconsistenti.

Eh sì, perchè il protagonista ha l’incredibile volto di Joaquin Phoenix, spaventosamente bravo. Tanto ha saputo essere brutale, ne “Il gladiatore” o animalesco in “The Master”, quanto tenero e commovente in questa prova. Camicie con il collo alla coreana dai colori pastello che cambia ad ogni scena (sembra quasi un omino Fisher Price), pantaloni di lanetta a vita altissima, e occhiali tartarugati che si preme sul naso ogni trenta secondi. Il suo talento è immenso e multiforme nel diventare Theodore, lasciando completamente da parte Joaquin. Ci scordiamo che sta recitando.

A fargli da perfetto supporto, un trio di attrici totalmente efficaci come Rooney Mara, Olivia Wilde e soprattutto Amy Adams, nei panni di una cara amica: piccola parte, ma tanto cuore. E poi c’è Scarlett Johansson, o meglio la voce che regala al (non) personaggio di Samantha, che sarebbe meglio poter gustare in lingua originale per non perdere la grandissima performance.

In Theodore, e in chi gravita intorno a lui, c’è la stessa necessità, lo stesso desiderio di amare e di essere amato. Figure altrettanto fragili, subito pronte a tornare nell’unico rifugio percepito come sicuro: la solitudine dei propri appartamenti e l’assenza di interazioni umane dirette.

Ancora troppo umani

Il cinema ha spesso ragionato sulla questione relativa al “sentire” delle intelligenze artificiali. Pensiamo alle apocalissi robot o anche solo ad alcuni paradossi etici. Her”, però, tratta questa tematica sotto un diverso aspetto, vi si approccia analizzando l’arma più disattesa da un computer: l’amore.

Samantha può interagire contemporaneamente con migliaia di persone ed altri OS, provando emozioni nuove che la mettono al cospetto delle infinite possibilità che il mondo può offrirle. Così, Theodore è di fronte ad un inaspettato dilemma sull’amore: cambiare la natura dei fattori, non sembra sufficiente e modificarne le problematiche.

Ride e soffre Samantha, perché sa che la sua crescita intellettuale ed emotiva, pur espandendosi potenzialmente all’infinito, non potrà mai farsi materia, corpo. In effetti, i suoi orizzonti sono senza confini, ma mettono ben presto a dura prova il presupposto dell’esclusività del sentimento, necessità squisitamente umana. Tenta, ma ci sono aspetti, terribilmente umani, che nessun surrogato potrà mai risolvere.

Il dramma è che siamo ancora umani, troppo umani. E non macchine, sofisticate e complesse, che non hanno alcuna voglia di essere limitate a un solo utente. Dunque, dei disperati.

Simona Van de Kamp

Simona Van de Kamp

Creatura mitologica, per metà prova a fare l'avvocato, per metà prova a fare la scrittrice. Diretta e pungente, la odierete tutta, al 100%. Il blog e la radio sono due sogni che si avverano. Ha messo la testa a posto, ma non ricorda dove.

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