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Preparativi di viaggio: quell’insana passione per “la lista”

Springsteen on Brodway (I really want to rock your souls)

Springsteen on Brodway (I really want to rock your souls)

Springsteen on Brodway (I really want to rock your souls)

Con questo nuovo articolo si passa dal grande al piccolo schermo. Voglio infatti parlarvi di Springsteen on Brodway, lo spettacolo dei record tenutosi al Walter Kerr Theatre che il Boss ha replicato più di 220 volte e che, dal 16 dicembre (giorno anche dell’ultima calata di sipario), si trova disponibile su Netflix. Il rilascio del contenuto video è stato preceduto dall’uscita dell’album che raccoglie l’audio dello spettacolo.

Un nuovo Springsteen

Un pianoforte a coda Yamaha. Chitarra Takamine. Bruce. Questi gli attori di un palco – atelier essenziale, spoglio, dismesso. Forse cristallizzazione dell’anima di Bruce nei suoi momenti più bui. Opificio di demoni.

Questa nuova dimensione fissa nuove coordinate al rapporto di Springsteen col pubblico. Se fino a quel momento il rocker (con la sua fidata E Street Band) ha tenuto concerti da maratoneta, cimentandosi in prove di resistenza sempre più ardue, ora è il momento di depredarsi dai filtri e diventare almeno maschera nuda: consapevole dei suoi autoinganni e contraddizioni, seppur incerto sulla loro completa espiazione.

Tutto lo spettacolo è quindi una auto-demistificazione, una completa demolizione del mito di se stesso che subisce e di cui si compiace da anni.

Working class hero? Non ho mai visitato l’interno di una fabbrica come quelle su cui ho scritto molte canzoni. Non ho alcuna esperienza personale di lavoro. Ho inventato tutto. […] A 22 anni non sapevo nemmeno guidare un’auto e dopo poco avrei scritto Racing In The Street – capite quanto sono bravo?

Lo spettacolo

Nello spettacolo confluiscono quindi diverse anime: è monologo, confessione, ma senza perdere la dimensione dialogica; è seduta terapeutica di gruppo, ma anche stand-up comedy e naturalmente concerto. I frequenti passaggi tra registro comico e registro drammatico aumentano la carica emotiva di tutta la pièce; la profondità che ti aspetti da Springsteen ti coglie ugualmente impreparato, e ti fa precipitare in qualcosa che senti appartenerti e tuttavia ti sovrasta. Le parole diventano musica e ritornano parole, e a poco a poco si intesse la trama della vita di Bruce sopra l’ordito delle tante canzoni che gli (ci) hanno salvato la vita.

Le canzoni

Non essendoci una vera linea di separazione tra introduzione in prosa e musica, in questa commistione le canzoni di Springsteen assumono una nuova veste. Sono cantate con una nuova voce, una nuova intenzione, addirittura una nuova linea melodica. Inserendole in un contesto biografico, esse assumono nuova linfa vitale. In My Hometown e My Father’s House il rocker ci parla di quanto i rapporti di amore – odio siano quelli che segnano un crocevia nella nostra formazione stabilendo chi siamo, e di quando un amore non ricambiato può essere costruttivo e compensato con l’emulazione.

Scelsi la voce di mio padre perché alle mie orecchie aveva qualcosa di sacro. Mio padre, il mio eroe e il mio peggior nemico. Vedi quell’uomo sul palco, papà? Sei tu, quello è come ti vedo io!

In The Wish c’è tutto l’amore per una madre che una voce e un pianoforte possano esprimere – e credetemi, è tanto! –, e la prova che esiste sempre un modo per riscoprirsi insieme a dispetto delle circostanze.

The Promise Land è cantata addirittura senza microfono, per far cadere anche l’ultimo filtro e forse ricordarsi che la terra promessa è già stata raggiunta, e Born In The U.S.A., preceduta da uno strumentale eseguito con una dodici corde, ci ricorda il senso del blues e di tutta la sua rabbiosa, devastante, sublime bellezza.

Tirando le somme

Tirando le somme, credo che lo spettacolo e la musica di Springsteen tout court nascano da un’esigenza ben precisa: il tentativo tormentato di riempire un vuoto. La vertigine di non aver più una pagina bianca da scrivere – prerogativa solo della prima giovinezza –, il “come sarebbe andata se…”, la percezione di un tempo che ora appare tremendamente limitato. Ma soprattutto il vuoto di certe assenze più pesanti e invadenti di una presenza. Sensazione che, permettetemi la digressione, avvertiamo tutti un po’ di più nel periodo di festa che trascorre mentre scrivo. In quale tavola imbandita, infatti, non presenzia almeno un convitato di pietra che vena di malinconia l’impossibile e mortale assoluta gioia che ci prescrivono di vivere?

Ecco, ciò che possiamo mutuare dal nostro compagno di viaggio Bruce è cercare di vivere secondo l’equazione del rock, quella per cui 1+1 = 3 quando tutto funziona come deve.

Simone Gasparoni

Simone Gasparoni

Classe 1995, studio Filosofia all'Università di Pisa. Allievo ortodosso di Socrate, ho sempre pensato che le parole siano roba troppo seria per abusarne (lo so, lo so, detta così sembra una scusa degna del miglior cerchiobottismo, per dirla in gergo giornalistico). Romantico per vocazione, misantropo per induzione. Attualmente, in via di riconciliazione con il genere umano attraverso la musica, l'arte, la cultura. Per ora, sembrano buone vie. Oltre che all'Unipi, potete trovarmi in giro in qualche locale o teatro a strimpellare la tastiera. O, con più probabilità, a casa mia. P.S. Ecco, l'ho già fatta troppo lunga...

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